La Polonia decapitata I vertici dello Stato morti in un secondo

FATALITÀ Il pilota ha tentato di atterrare nonostante la nebbia e gli avvisi dei controllori

Nulla e nessuno sulla Terra sa essere, a volte, più spietato della Storia e della sua beffarda, implacabile ironia. A Katyn nell’aprile 1940 la Polonia vide trucidare il meglio della sua gioventù, perse 22mila ufficiali, si ritrovò in ginocchio e senza guida. Sul cielo sopra Katyn la Polonia perde - 70 anni dopo - i vertici della nazione. A bordo di quell’aereo presidenziale planato sugli alberi, schiantatosi al suolo, trasformatosi – ieri mattina - in una grigia, informe distesa di corpi e rottami divorati dalle fiamme c’era il Gotha della nazione. C’erano il presidente Lech Kaczynski con la moglie, il governatore della Banca centrale Slawomir Skrzypek, il capo delle forze armate generale Franciszek Gagor, i comandanti di marina, esercito, aviazione e servizi segreti, un pugno di deputati e alcune fra le più influenti personalità nazionali.
Erano 96 in tutto, erano i simboli e i capi di un Paese sventurato che ora si sente decapitato, sperduto. «È incredibile, Katyn è maledetta, quest’orrido simbolismo è agghiacciante, fa tremar la spina dorsale» ripeteva ieri mattina Aleksander Kwasniewski, predecessore di Kaczynski.
A Varsavia molti la pensano come lui, gridano all’anatema, imprecano contro la storia, contro i potenti vicini russi, considerati da sempre l’origine di tutti i mali. Ma stavolta i russi c’entrano poco. Fosse stato per loro, fosse stato per il loro premier e uomo simbolo Vladimir Putin quel malandato Tupolev TU 154 con le insegne della presidenza e 26 anni di voli sul groppone non si sarebbe mai alzato in volo. Per Putin tutto doveva concludersi con la cerimonia ufficiale di mercoledì 7 aprile. Una cerimonia di ricordo e di riconciliazione. Una cerimonia a cui s’era ben guardato dall’invitare il detestato Lech Kaczynski, leader e fondatore assieme al gemello ed ex premier Jaroslaw di quel partito della Legge e della Giustizia conosciuto per i toni nazional-religiosi e anti-russi.
Putin, applicando rigorosamente il cerimoniale, aveva invitato alla commemorazione solamente il suo omologo Donald Tusk, un primo ministro conosciuto come un acerrimo avversario dei gemelli Kaczynski. A voler giocare con le suggestioni, a voler tirare in ballo gli imperscrutabili scherzi di uno spietato destino, ce ne sarebbe da dire. Per essere a Katyn, per essere pure lui in quella foresta maledetta nel settantesimo anniversario della strage messa a segno dai sovietici, Lech Kaczinski aveva fatto di tutto e di più. Aveva ignorato l’ostracismo di Mosca, aveva raccolto dietro sé il meglio della Polonia, aveva trasformato la ricorrenza in un’altra sfida al detestato primo ministro Tusk. In gioco c’era sempre la poltrona presidenziale. Lech l’aveva conquistata nel 2005, infliggendo un’umiliante sconfitta proprio a Tusk. Quest’ultimo s’era vendicato nel 2007 battendo alle elezioni parlamentari il premier uscente Jaroslaw Kaczynski, il fratello gemello di Lech e fondatore assieme a lui del partito della Legge e della giustizia. In autunno si sarebbe votato per la presidenza.
Ai blocchi di partenza ci sarebbe stato ancora Lech Kaczynski sfidato questa volta dal presidente della Camera Bronislaw Komorowski, considerato un uomo di fiducia di Donald Tusk. Lo stesso uomo nominato ieri, come prevede la Costituzione, presidente ad interim. In vista dell’appuntamento elettorale d’autunno Kaczinsky - un presidente che aveva fatto dell’orgoglio nazionale e del ricordo dei crimini comunisti la propria bandiera – non poteva certo perdersi l’appuntamento con Katyn. In quell’ostinato, testardo accanimento, in quel desiderio d’esser ad ogni costo davanti alle tombe della foresta maledetta si nascondeva la beffa funesta.


Quell’accanimento ha spinto il presidente e la sua corte a sottovalutare la nebbia fitta come l’ovatta, a confidare in una carretta dell’aria di fabbricazione sovietica protagonista negli ultimi anni di 66 incidenti, a spingere il pilota a ignorare per 3 volte le raccomandazioni di chi - dalla torre di controllo - suggeriva di abbandonare l’aeroporto di Smolensk e di proseguire per Minsk o Mosca. Quell’ostinazione livorosa ha portato Kaczynski e i suoi fedelissimi alla morte, ha decapitato un’altra volta la nazione polacca, ha aperto le porte a un’inquietante e preoccupante parentesi istituzionale.

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