Stiamo diventando faticosamente e nonostante ci sia chi rema contro un Paese di navigatori. Ma ci vorrà ancora più tempo per diventare un Paese di ormeggiatori.
Non è solo questione di numeri, peraltro impietosi, ma di approccio al problema: ci sono parecchi marina non allaltezza per servizi e accoglienza nei riguardi del diportista e in ogni caso i prezzi sono salati. Non sorprende in questo senso che da uninchiesta di Financial News tre porti italiani siano risultati i più cari al mondo per i superyacht: Capri, Portofino e Porto Cervo che richiedono un esborso giornaliero di circa 2300-2900 euro. Si tratta di casi limite: in particolare lisola del golfo di Napoli e il piccolo borgo ligure sono un mondo a sé. Il vero problema è che i prezzi sono elevati anche e soprattutto per la mancanza di posti barca.
Ucina da anni picchia duro sul tema: uno degli otto provvedimenti del «Piano della nautica», presentato a Genova 2009, riguardava appunto il recupero di ormeggi allinterno di strutture commerciali e portuali nonché aree militari dismesse. Non mancano spazi e buone idee: un valido esempio è rappresentato dalla nuovissima struttura della Maddalena che ha recuperato parte dello specchio dacqua dellex-Arsenale. Gli stranieri che lhanno scoperto in occasione del Louis Vuitton Trophy di vela sono rimasti a bocca aperta. Si potrebbe fare lo stesso - e in effetti ci sono in ballo progetti interessanti - a La Spezia come a Napoli, a Cagliari come a Trieste: basta volerlo realmente e non fare dibattiti eterni, quasi sempre su aspetti secondari.
«A fronte di un parco barche ormai sulle 600mila unità - dice Anton Francesco Albertoni, presidente di Ucina - abbiamo circa 150mila ormeggi, ma ci sono tutte le possibilità per migliorare rapidamente la situazione. Da un nostro studio si evince che senza costruire nuovi marina si possono recuperare 40mila posti barca nelle aree dismesse. E 13.500 di questi potrebbero servirsi senza problemi di pontili galleggianti, soluzione che piace anche agli ambientalisti».
Quanto ai porti in costruzione, la sostenibilità ecologica e lintegrazione con il territorio sono diventate giocoforza il punto di partenza di ogni progetto, che talvolta è «avanzato» rispetto a normative lacunose, soprattutto in materia di inquinamento. Limpiego di materiali compatibili con lambiente, i criteri di risparmio energetico e limpiego di fonti di energia rinnovabili, sono gli altri cardini dei nuovi marina o di quelli in ampliamento. Lelenco è lungo. Si lavora a Imperia come a Siracusa, ad Anzio come a Livorno, a Manfredonia come a Fiumicino: obiettivi e spazi diversi ma concetti simili. E si sono visti altri progetti che lasciano a bocca aperta come il Porto del Tirreno, nei pressi di Civitavecchia, dove il gruppo Acqua Marcia e il gruppo Cozzi Parodi intendono seguire la linea originaria del mitico approdo voluto da Traiano nel primo secolo d.c. e che era in grado di ospitare sino a 100 navi mercantili. Visto che lattenzione allecologia è indiscutibile (negli ultimi anni le «bandiere blu» per i porti sono aumentate in numero impensabile sino a poco tempo fa) e quindi gli ambientalisti non possono attaccarsi allabusato concetto della «colata di cemento», non resta che rispondere allaltro classico argomento di chi si oppone alla realizzazione di porti: si pensa solo alle grandi barche, alla nautica dei ricchi ed è un gioco per pochi. A parte il fatto che in ogni nuovo marina si trovano ormeggi per barche di ogni dimensione - come e facilmente in misura maggiore rispetto a tanti scali esteri basterebbe leggere i numeri più illuminanti dellultimo Rapporto sul Turismo Nautico, realizzato dallOsservatorio Nautico Nazionale. Si scopre, ad esempio, che ununità da diporto genera un indotto annuo di quasi 14mila euro sul territorio, dovuti alle spese di ormeggio, carburante, manutenzione, provviste, ristorazione, shopping, ecc. Questa cifra sale a 73mila circa se lunità è una nave da diporto, quindi oltre i 24 metri.
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