Povero Gagarin afghano, finito dalle stelle alle stalle

Dalle stelle alle stalle. Nessuno può dirlo più di Abdul Ahad Momand. Lui lassù c’è stato. Lui il suo Afghanistan l’ha fotografato dall’oblò di una Soyuz in orbita mentre nel fiore dei suoi 29 anni sognava la futura gloria. Ora Abdul d’anni ne ha 51, i vecchi sogni sono polvere di stelle, graffi nella memoria, pulviscolo di passato spazzati via dal vento della storia. Oggi nella piccola Ostfildern, la frazione di Stoccarda dove vive con la moglie e un bimbo, lo chiamano l’afghano. Solo chi lo conosce meglio c’aggiunge l’«astronauta» afghano. In quello stratosferico 88, la sua vita era in inarrestabile ascesa. Allora per tutti - a Kabul e dintorni - Abdul era semplicemente l’eroe. L’eroe della guerra, l’eroe dello spazio, l’eroe di un ritorno impossibile. Incominciò tutto con la guerra, in quel maledetto 1979 quando lui era all’accademia e i sovietici arrivavano a Kabul con i carri armati per suggellare la «fratellanza comunista». Da lì a pilotare un Mig e a dar la caccia ai «banditi» rintanati tra le montagne del paese fu un attimo. Non aveva dubbi, non aveva rimorsi Abdul. La guerra chirurgica non l’avevano inventata. Scendeva in picchiata, scaricava bombe e razzi, spianava villaggi e campi, uccideva guerriglieri e bambini. Quando atterrava era il vincitore. Quelle missioni e la fortuna di sopravvivere ai missili della resistenza lo trascinano nell’88 all’appuntamento con lo spazio.
La guerra dell’Armata Rossa è agli sgoccioli, ma i sovietici prima di mollare amici e alleati vogliono dare un ultimo segno di fratellanza comunista. Così Abdul, il migliore dei piloti, viene promosso astronauta. Per metter piede nel guscio d’argento della Soyuz bastano un corso accelerato e la promessa di non toccare i comandi. Sparato nello spazio a 25 volte la velocità della luce Abdul recita il suo ruolo di terzo incomodo senza una sbavatura. Si fa fotografare con i fratelli astronauti russi, esibisce sorridente un Corano, saluta dallo spazio il presidente fantoccio Najibullah, discute con lui dei magnifici orizzonti del popolo afghano. Dopo una settimana è pronto al gran ritorno. Fedele alle raccomandazioni si mette in disparte, lascia leve e comandi ai fratelli sovietici. Fino a quando il computer di bordo smette di funzionare. Da terra ordinano di attendere e i due ligi compagni astronauti obbediscono senza fiatare. Solo Abdul, curioso come una capra afghana continua a sbirciare le spie del computer in tilt. Solo Abdul si accorge dell’allarme che segnala l’imminente sganciamento delle batterie e lo svuotamento dei serbatoi. Solo Abdul capisce. Solo Abdul urla. Solo la sua curiosità evita che la navicella diventi un guscio prigioniero dell’orbita terrestre o una palla di fuoco carbonizzata nel rientro fuori controllo nell’atmosfera.
Così il giorno dopo mentre sfila in tuta spaziale a bordo di una macchina scoperta sulla piazza Rossa Abdul non è più soltanto l’eroe di Kabul ma, come recita l’onorificenza del Cremlino, un Eroe dell’Unione Sovietica. A casa quella medaglia gli garantisce un posto da vice ministro dell’aviazione e del turismo. Ma la gloria svanisce velocemente. Nell’89 i fratelli sovietici salutano tutti e nel 1992 - quando i mujaheddin bussano alle porte di Kabul - quelle cariche e quel passato glorioso diventano un segno d’infamia.
In quattro anni Abdul si trasforma da astronauta a vagabondo, da ministro a reietto, da eroe a profugo. L’afghano che passeggiava tra le stelle vaga di frontiera in frontiera fino quando a quella tedesca qualcuno gli concede un permesso di soggiorno. Tenta di farsi assumere in un centro di ricerca spaziale, ma per lui promosso astronauta con un corso accelerato e un timbro dell’Unione Sovietica non c’è molto spazio. Così fa come tutti gli altri profughi afghani di Germania. S’ingegna sbarca il lunario, campa con una piccola import-export e la sera quando torna a casa collega la tv al satellite s’informa sulla guerra mai finita, ascolta i politici di quella Kabul così lontana e scuote la testa. Avrebbe voluto tornare, far volare gli aerei dell’Ariana, la malandata compagnia nazionale, ma dalla capitale nessuno gli ha mai risposto.

E cosi Abdul si ributta nel divano, guarda il modellino di Soyuz appeso alla scrivania, affonda nei ricordi, si risveglia alza gli occhi al cielo e si rimette a cercare la sua buona stella. Ma era rossa ed è tramontata per sempre.

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