La predica di Scalfaro: "La verità è un dovere". Tranne che per lui

L’ex presidente su «Repubblica» chiede a Berlusconi di «chiedere scusa» alle Camere. Ma nel suo passato...

La predica di Scalfaro: "La verità è un dovere". Tranne che per lui

Passi per Hitler, che aveva arruolato ragazzini di 14 anni e vecchietti di 80 per difendere gli ultimi metri di Berlino, ma dev’essere alla frutta anche il partito di Repubblica, se non trova di meglio che rispolverare il pio Oscar per proseguire la guerra contro Berlusconi. Non hanno più foto da spararsi, confessioni piccanti e festini hard? Ed ecco allora l’arma segreta, esce dal bunker il presidente emerito Scalfaro, classe 1918. Il «sepolcro imbiancato», come lo chiamava Bettino Craxi dall’esilio. Ieri lo han lanciato in intervista per far dire anche a lui, come già a svariati «bufalari» della stampa estera, che il premier deve «dare spiegazioni in Parlamento» e rispondere alle «dieci domande dieci» del tormentone di Repubblica. Deve «chiedere scusa al Parlamento e ai cittadini», perché «un po’ di cenere in capo converrebbe anche a lui». Lo chiede in nome di «chiarezza e verità», princìpi che gli sono stati «sempre a cuore nell’attività politica», dice.
Ineffabile e pio Oscar, ancora sul pulpito! Sorvoliamo sui primi passi pubblici, che sono ormai preistoria. Che so, perché e come da giovane pm nella sua Novara ormai liberata (ancora adesso ama ripetere di aver la toga appesa al cuore) ha chiesto e ottenuto la fucilazione di un paio di repubblichini. O com’è andata quella storia dello schiaffo alla signora «scollacciata» intravista in una trattoria romana quand’era deputato di primo pelo. Oppure il vezzo di lasciare cadere il rosario dalla tasca quando girava in campagna elettorale per conventi, sinché una madre superiora ormai avvezza lo ha supplicato: «Basta onorevole, abbiamo capito che è un buon cristiano».
No, «chiarezza e verità» scalfariane sono diventate lampanti in età più matura, quando è salito al Viminale, poi alla presidenza della Camera, infine al Quirinale. Ma non era lui, il ministro di polizia del «chiamatemi Lattavulo», sì, il prefetto Lattarulo dei fondi neri Sisde? Lo scandalo esplose quando era già capo dello Stato, e andò in televisione a pontificare «io non ci sto!». Ma le bustarelle nel suo ufficio all’Interno, dall’83 all’87, erano arrivate; altroché se arrivavano, rallegrando pure le dattilografe. E nell’aprile ’92 appena eletto presidente della Camera, chi mandò il suo fedele portavoce dal portavoce uscente della Iotti, domandando «a quanto ammontano qui, i fondi riservati?», ricevendone una muta risposta di occhi stupefatti?
Ma è nel settennato, che «chiarezza e verità», insieme al «dialogo» ovviamente, hanno brillato come fulgide stelle. Da subito, perché Craxi gli aveva spianato la strada per il Quirinale con l’intesa che ne avrebbe ricevuto l’incarico di formare il governo. E quello che ti fece? Invitò Claudio Martelli ed Enzino Scotti a palazzo, «mi dovete dare una mano per questo difficile incarico, fatevi venire un’idea». Quelli abboccarono salendo al Quirinale, e a tambur battente Scalfaro si lamentò con Gennaro Acquaviva e a Salvo Andò: «Ma sapete che quei due sono venuti a candidarsi?». Così nel Psi esplose la lite, e Palazzo Chigi toccò a Giuliano Amato.
Erano gli anni di Mani pulite, ma chi stilava le liste dei ministri e pure quelle dei sottosegretari, imponeva dimissioni a suo piacimento, dava il via libera al ministro della Giustizia (era Alfredo Biondi), anzi lo sollecitava, per varare un provvedimento che distinguesse tra politici ladri in proprio e percettori di tangenti per il partito, per poi ripararsi nella vandea giustizialista peggio di Ponzio Pilato? I tatticismi per tenere in vita i «governi tecnici» finché non fosse pronta la gioiosa macchina da guerra di Occhetto, sono chicche costituzionali. E i giochini per incartare Berlusconi, «Gifuni povtami il calendavio»? Nemmeno i Legnanesi.
Meglio ridere, visto che la grottesca pièce continua, ma avete dimenticato lo sbianchettamento referendario? Era il 1997, la Corte costituzionale aveva appena votato il sì all’ammissione anche del referendum sulla smilitarizzazione delle Fiamme gialle, e s’affrettava alla cena per festeggiare la matricola Fernanda Contri. Nell’atrio dell’Hassler, un paio di giudici lo confidarono a due cronisti. Per compiacere i comandi della Guardia di finanza, nella notte Scalfaro mise sotto pressione il presidente e gli esponenti suoi amici della Consulta. E per potenza della separazione dei poteri e delle regole, l’indomani quel sì s’è tramutato in no. «Era un sì scritto a matita, provvisorio», s’arrampicarono sui vetri.
E già che ci siamo, che dire della nomina della Contri, illegittima poiché non aveva vent’anni di esercizio dell’avvocatura? Scoperto l’errore scalfariano, la Contri avrebbe dovuto dimettersi. Ma lui s’oppose, anche perché c’era il rischio di inficiare tutte le sentenze alle quali aveva nel frattempo contribuito la giudice senza titoli. E allora hanno sanato chiudendo occhi, bocca e orecchie come le tre scimmiette, archiviando la faccenda a tarallucci e vino.
Sì, l’imparziale e saggio Oscar...

Qualcuno sa dire come mai ancora oggi, la Corte costituzionale è in stragrande maggioranza orientata a sinistra? Guarda tu che coincidenza, questo è il 10° interrogativo... Perché non dà l’esempio e intanto risponde lui, il presidente emerito?

Quando si autoassolse in Tv: "Non ci sto"

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