Sospeso tra racconto eroico e tragedia classica, tra aspirazione autoriale e cinema di genere, "Il primo re" di Matteo Rovere è il racconto rielaborato del mito fondativo della città di Roma.
Siamo nell'VIII secolo avanti Cristo. Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi), due fratelli legati da un rapporto viscerale, vivono facendo i pastori sulle rive del Tevere. Dopo essere stati travolti dall’esondazione del fiume, si ritrovano prigionieri ad Alba Longa, da dove fuggono capeggiando una ribellione. Portata via, su insistenza di Romolo, la vestale custode del fuoco sacro (Tania Garribba), decidono, assieme ad altri fuggitivi, di seminare le truppe nemiche rifugiandosi nella foresta. Remo intende conquistare la leadership del gruppo per proteggere Romolo, ridotto molto male a causa di una ferita, ma quando la vestale riferisce qual è il volere degli dei, la situazione si complica.
"Il primo re" è confezionato con cura certosina e ha richiesto uno sforzo produttivo imponente, 9 milioni di euro. La verosimiglianza storica è garantita dal coinvolgimento di archeologi, semiologi, linguisti ed esperti dell'antichità. In particolare i dialoghi, recitati con grande naturalezza, sono in un latino preromano (sottotitolato in italiano) che, ricreato dagli studiosi della Sapienza, dà un grande contributo all'aura misteriosa e arcaica dell'opera. Girato completamente in esterna, in scenari selvaggi sparsi per il Lazio, il film è fotografato con il solo ricorso alle luci naturali da un maestro come Daniele Ciprì. Indubbiamente ci sono molti richiami a "The Revenant - Il sopravvissuto" di Inarritu, così come ad altri titoli tra cui "Valhalla Rising" di Winding Refn.
L'estetica è sporca, adatta a un racconto tutto fango, carne, fuoco e sangue, in cui si vuole che il realismo domini sull'aspetto mitologico. I combattimenti sono numerosi, cruenti e ben coreografati, la recitazione è molto fisica e tutto, dai costumi alle scenografie, trasuda brutalità primitiva. In questi terreni boschivi e paludosi, oltre a tanta violenza trovano posto riti magici e religiosi. L'atmosfera, quindi, oscilla tra ferina sostanza terrena e superstizioso afflato spirituale, così come l'intero film appare costruito sulle opposte visioni del mondo dei due fratelli protagonisti. Romolo è convinto che siano gli dei a condizionare le esistenze degli esseri umani, Remo invece crede nel libero arbitrio e nell'individualismo. Alla sudditanza del primo di fronte ai dogmi dell'ortodossia religiosa e al concetto di fato, l'altro, seppur devotissimo al fratello, risponde da eretico, investendo carisma, intelligenza e prestanza fisica nella conquista di un potere che in poco tempo gli fa perdere di vista compassione e solidarietà umana.
Il film di Rovere deve gran parte del suo fascino alle ottime interpretazioni di tutto il cast e alla scelta della lingua antica, ma bisogna riconoscere che a smorzarne l'epica è la flebile potenza emotiva. Nonostante lo spettatore sia testimone delle dure prove a cui viene sottoposto il rapporto simbiotico tra i due fratelli, latitano il coinvolgimento profondo e la commozione.
Ad ogni modo, veder raccontare da un cineasta italiano le origini del nostro paese e della nostra cultura usando
stilemi in parte hollywoodiani denota un'ambizione e una sfrontatezza tanto insolite quanto preziose. "Il primo re" è la prova che, armati di coraggio e talento, si possono produrre progetti che non siano le solite commedie.
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