"Dal principe Borghese a oggi questa Italia è tutta un golpe"

L’ex missino Sandro Saccucci condannato e poi assolto per l’omicidio di Sezze: "Non sono né un eversore né un massone né uno 007 deviato, ma un esiliato politico"

"Dal principe Borghese a oggi  questa Italia è tutta un golpe"

Si definisce «esiliato politico da 33 anni». Vive in Argentina. Se dovesse compilare la voce «Saccucci Sandro» per la Garzantina, scriverebbe così: «Politico. Membro della Camera dei deputati nella VI e VII legislatura. Eletto a Roma. Membro della Commissione Difesa. Consigliere comunale di Nettuno. Editore del periodico Opinione Romana. Segretario romano dell’Associazione nazionale paracadutisti d’Italia. Ha scritto i libri L’esperienza Allende, Studio sul terrore comunista in Russia, Rodesia la verità, La Terza Posizione, tutti tradotti in varie lingue. Direttore del Centro studi difesa dell’Occidente». Nessun cenno al luogo e alla data di nascita (Roma, 22 agosto 1943), allo stato civile (divorziato, una figlia), al titolo di studio («licenciatura en lingüística regional Quichua», preciserà poi, cioè una laurea sulla cultura della popolazione che dominava l’America Latina prima della conquista spagnola) e all’uccisione, avvenuta nel 1976 durante un suo comizio a Sezze (Latina), dello studente Luigi Di Rosa, 21 anni, militante della Federazione giovanile comunista. Un fatto di sangue che lo trasformò in un cospiratore invischiato in tutte le trame golpiste di questo Paese, e che gli costò l’arresto, il carcere, la fuga, la latitanza e la condanna per concorso in omicidio, prima d’essere definitivamente assolto dalla Cassazione nel 1985. Un risarcimento tardivo: nell’immaginario collettivo l’ex deputato del Msi-Dn resta l’uomo nero per antonomasia, legato ai cosiddetti «servizi segreti deviati». Nera la pagina che ha scritto, nera la leggenda che gli è stata cucita addosso.

Si sente fin dal primo approccio che per Saccucci la politica ha rappresentato qualcosa in più di tanto: tutto. Ha fatto il parlamentare per dieci anni. Oggi gode di un vitalizio: 4.725 euro mensili, lordi. Ma non lo difende, come altri, con le unghie e con i denti: «Il premier Mario Monti vuol tagliarci le pensioni? È logico che anche gli ex deputati debbano contribuire». Saccucci abita all’estrema periferia di Córdoba, in un quartiere senza lussi che assomiglia alla scacchiera di una dama. Qui è piena estate, di giorno la temperatura supera i 30 gradi. L’Aconcagua, la vetta più alta della Cordigliera andina e di tutto il continente americano, dista in linea d’aria poco più di 500 chilometri.

Com’è diventato un uomo di destra?
«Ammiravo Giuseppe Mazzini. Imparai ad amare l’Italia e ad apprezzare l’idea di nazione e di Stato nel fascismo».

Perché non potrebbe mai essere di sinistra?
«Ho una visione del mondo ampia e spirituale, che supera il limite del materialismo. La sensibilità sociale, l’umanesimo del lavoro e la giustizia sociale non sono patrimonio esclusivo del marxismo».

Quando e come aderì a Ordine nuovo?
«All’Università di Roma, nel 1968, facevo parte del Movimento studentesco, che fu un’esperienza politica senza precedenti fino agli scontri di Valle Giulia con la polizia. Due settimane dopo la situazione si rese irreversibile per tutta l’area politica di destra ed extraparlamentare. Ci fu un inevitabile riflusso».

Chi dirigeva Ordine nuovo?
«Clemente Graziani, poi esule come me, morto in Paraguay nel 1996. Un amico. Lello credeva nella continuità della formazione culturale, mentre io vedevo la necessità di un’azione politica movimentista. Per questo nel 1970 mi allontanai da Ordine nuovo, che venne sciolto alla fine del 1973, per decreto del ministro degli Interni, con la speciosa accusa di apologia del fascismo. Un assurdo, perché noi non ci rifacevamo al Ventennio. Il nostro referente era lo scrittore Julius Evola, con un contenuto ideale che andava ben oltre Benito Mussolini. Fummo condannati in base alla legge Scelba per tentata ricostituzione del disciolto Pnf. Mi beccai 4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici. Pubblico ministero e giudice del mio processo furono Michele Coiro e Mario Battaglini, due esponenti di Magistratura democratica notissimi per i loro trascorsi nelle file dell’estrema sinistra».

Però lei fu anche arrestato con l’accusa d’aver partecipato nel 1970 al golpe Borghese.
«Un anno di galera. La teoria del golpe appartiene alla cultura politica italiana. Non sono forse in molti a pensare che il governo Monti sia il prodotto di un golpe, non traendo la sua legittimazione dal voto popolare? E i presunti tentativi di golpe del generale Giovanni De Lorenzo e di Edgardo Sogno? E la Rosa dei Venti? E Lady Golpe, alias Donatella Di Rosa? Parliamo di 50 anni di golpe!».

Restiamo al colpo di Stato che sarebbe stato guidato da Junio Valerio Borghese nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970.
«C’era una situazione politica esplosiva. Una rivolta popolare a Reggio Calabria, a stento domata dall’esercito. Un’altra sommossa all’Aquila. Un malessere sociale diffuso. Pochi giorni prima del mio arresto, sfilarono per le vie di Roma decine di migliaia di persone che invocavano: “Basta coi bordelli, potere ai colonnelli”. Io avevo il solo torto di conoscere il principe Borghese».

E dunque?
«Scattò l’operazione di Palazzo: arrestare i presunti rei di cospirazione, seminare il terrore, stroncare le tentazioni golpiste che rischiavano di sedurre l’opinione pubblica. Il colpo di Stato ci fu, eccome: quello del governo Dc-Psi-Psdi-Pri che temeva il sorpasso. Non dimentichi che alle elezioni politiche del 1972 il Msi-Dn registrò la più grande avanzata della sua storia. Il golpe Borghese è stato una caccia alle streghe. Lo dimostra il fatto che nel 1984 la Corte d’assise d’appello di Roma pronunciò un’assoluzione generale».

Ernesto De Marzio, deputato missino, dichiarò al Corriere della Sera che quel colpo di Stato «non era una barzelletta» e che fu la Cia a ingiungerle di bloccare il progetto eversivo all’ultimo momento.
«Parola di De Marzio».

Secondo De Marzio eravate «armati di tutto punto» e il vostro obiettivo era via Teulada, sede della Rai.
«Fantasie dell’autore. Come mai solo poco prima di morire, ultraottantenne, se ne uscì con queste rivelazioni tenute in serbo per 26 anni?».

«Saccucci mi pareva un frescone», aggiunse De Marzio.
«Provo disagio a parlare di un defunto. Fu poco elegante. La sua mi parve un’espressione frutto di una cultura mercantilistica».
Che significa?
«Nel 1976, dopo la tragedia di Sezze, Giorgio Almirante mi espulse dal partito e De Marzio dal gruppo parlamentare. Qualche mese dopo De Marzio diede vita a Democrazia nazionale, alla quale aderirono 17 deputati. Ad Almirante ne rimasero altrettanti. In Parlamento eravamo 35. Il pareggio non permetteva a nessuno dei due contendenti di ritirare per intero i rimborsi elettorali previsti dalla legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Entrambi volevano il mio voto per ottenere la maggioranza. Offrivano in cambio diverse centinaia di milioni di lire. Io replicavo: non m’interessa il vostro denaro, voglio giustizia. Non diedi a nessuno dei due il mio avallo».

In quell’intervista con De Marzio, l’autore, Maurizio Caprara, la dava per iscritto alla loggia P2.
«Una balla di Caprara».

Mai conosciuto Licio Gelli?
«Mai».

È, o è stato, massone?
«Non lo sono e non lo sono mai stato».

Gianfranco Fini, delfino di Almirante, a quel tempo che tipo era? È vero che da segretario del Fronte della gioventù lo chiamavate Er Caghetta?
«Ero già in esilio da tre anni quando lui arrivò alla guida del Fronte della gioventù. Sull’origine di quell’appellativo mi spiegarono che indicava certe doti di coraggio, diciamo così».

Pare che lei invece fosse intrepido: bastonava i rossi e faceva da guardaspalle a Fini e agli altri capi missini.
«Non ho mai fatto il guardaspalle di nessuno. Le scazzottate all’università erano all’ordine del giorno. Volavano pugni, spintoni e grida. Ho partecipato nel darle come nel prenderle».

Che cosa pensa del Fini di oggi?
«Non mi occupo di questioni monegasche».

Veniamo ai fatti del 28 maggio 1976, campagna elettorale per le politiche, quando durante un suo comizio a Sezze morì il giovane comunista Luigi Di Rosa e fu ferito Antonio Spirito, militante di Lotta continua.
«Quel giorno mi recai in provincia di Latina per tenere i comizi elettorali programmati dal partito ed espressamente autorizzati da Almirante. Lotta continua aveva fatto sapere al ministro degli Interni che non avrebbe permesso ai “fascisti” di parlare in piazza. Ciononostante vi erano solo quattro carabinieri di servizio. Alcune centinaia di attivisti comunisti mi attaccarono con bottiglie, pietre, bastoni. Udii degli spari. Scesi dal palco e mi ritrovai circondato. Presi la pistola che tenevo in auto e la impugnai a scopo dissuasivo. Esplosi tre colpi in aria. Gli aggressori fuggirono. Tornato a Roma, appresi dall’agenzia Ansa che una persona era morta. Ignoravo che cosa fosse accaduto. Il giorno successivo dai giornali conobbi i particolari. Immediatamente mi presentai al tribunale di Latina a depositare la mia pistola e alla questura di Roma per sporgere denuncia. Seppi dal telegiornale che il mio partito mi aveva espulso. Sia pure con un ritardo di dieci anni, sono stato completamente scagionato dalla Cassazione con formula ampia perché estraneo alla vicenda».

Allora perché fuggì all’estero anziché affrontare il processo?
«Il giorno di Sezze ricorreva il primo anniversario di un attentato che avevo subìto in piazza Bologna a Roma, mentre tenevo un comizio, sotto gli occhi di un migliaio di persone e decine di poliziotti e carabinieri. In quella circostanza furono lanciate 13 bombe molotov e rimasi ferito assieme ad altri. La signora Tosi, il nome non me lo ricordo, fu investita dalle fiamme e morì per le ustioni qualche mese dopo. La sinistra aveva fatto una campagna terroristica contro di me. I rossi mi volevano uccidere, la polizia e i carabinieri mi cercavano, la magistratura emetteva mandati di cattura, la stampa mi criminalizzava, il mio stesso partito mi aveva espulso e mi negava persino un avvocato. Che cosa avrei dovuto fare? L’assemblea di Montecitorio che autorizzò il mio arresto si espresse per un delitto che al momento della votazione già non esisteva più, visto che l’accusa contro di me era nel frattempo cambiata. Un’autentica vergogna».

Nel 1985 fu arrestato in Argentina, perché durante la latitanza era stato condannato per i fatti di Sezze a 12 anni di reclusione, ridotti a 8 in appello. Per quanto tempo restò in carcere?
«Due mesi, in attesa che le autorità di governo italiane formalizzassero la richiesta di estradizione, che però non presentarono nei tempi stabiliti dai trattati. Perciò tornai in libertà. Un giurista commentò: “Il governo rischiava una pessima figura”».

Che idea s’è fatto sulle stragi compiute in Italia fra gli anni Settanta e Ottanta?
«L’obiettivo era il caos, il panico. Si voleva che il deficit di sicurezza facesse invocare l’ordine. La destabilizzazione era stabilizzante. Quindi poteva interessare solo al governo di turno».

È stato scritto che lei voleva assassinare il presidente Sandro Pertini.
«Falsi scoop giornalistici. Mai nessun magistrato mi ha incolpato o anche solo sospettato di un simile proposito».

«Saccucci teste sugli 007 cileni», titolò il Corriere nel gennaio 1996, scrivendo che era stato fermato a Córdoba per ordine della magistratura argentina.
«La giudice María Romilda Servini de Cubría fece un viaggio di lavoro nel nostro Paese per raccogliere informazioni circa un processo di sua competenza. Un collega italiano le confidò che in Argentina viveva uno che la sapeva lunga: Sandro Saccucci. Al suo ritorno, la giudice mi convocò a Buenos Aires in qualità di testimone. Era domenica. Dopo 90 minuti di colloquio, si scusò per l’invito forzoso, ordinò di consegnarmi il biglietto aereo per il ritorno, mi accompagnò alla porta del tribunale, e tanti saluti. Nel congedarmi mi confidò d’aver sospettato di quel magistrato che le aveva fatto il mio nome, perché era il fratello di un noto esponente comunista».

Era amico del dittatore Augusto Pinochet?
«Attraverso un diplomatico gli feci avere il mio libro L’esperienza Allende. Ricevetti una lettera di ringraziamento. Tutto qui».

Ha mai lavorato per i servizi segreti?
«Mai. Né italiani né stranieri».

Come vede la situazione dell’Italia?
«La festa è finita. Ora è arrivata la fattura da pagare».

Ma lei che cosa sognava per il suo Paese?
«Uno Stato serio. Si potrebbe ancora fare. Purtroppo mancano gli esempi virtuosi».

Può giurare di non essere mai stato coinvolto in fatti di sangue?
«Lo giuro».

E in trame eversive?
«Lo stesso».

Non ha nulla da rimproverarsi?
«Tanti errori. Nessuno perseguibile a norma di legge».

(582. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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