Ci sono voluti oltre quarant’anni per infrangere uno dei più granitici tabù del sistema musicale italiano: Fabrizio De André non è il mito che ci hanno fatto credere dopo la morte, ma un uomo pieno di contraddizioni, protagonista certo della scena cantautorale degli anni Settanta ma tutto sommato con ben poca originalità. Un sopravvalutato, insomma. A dirlo, per mezzo di un lungo e dettagliato servizio di copertina, è Rolling Stone di luglio, ultimo numero firmato da Carlo Antonelli, prossimo direttore di Wired, quasi che prima di lasciare abbia voluto togliersi un peso sullo stomaco: la santificazione di Faber, sopraggiunta post mortem dal 1999, è quanto meno sospetta, e a spiegarcelo sono coloro che lo conoscevano meglio, ossia la moglie Dori Ghezzi, l’amico «vero» Paolo Villaggio, Mauro Pagani, l’inventore di Creuza de Ma.
«La leggenda del santo cantautore non sarebbe piaciuta neppure a lui», scrive il magazine. «Era sicuramente più cazzaro che santo», dice Dori Ghezzi. Gli rimproverava «il farsi del male. Non faceva male agli altri, ne faceva a se stesso. Specie quando beveva troppo. Aveva momenti di rabbia non controllata perché non era più lui». In ogni caso, per Rolling Stone «oggi nessuno in Italia gode della reverenza tributata a Fabrizio De André. È una gara a chi meglio lo rievoca, rilegge, cita, analizza, svela...».
Tralasciando i tratti personali di un carattere difficile (De André era misantropo e misogino, arrogante, altezzoso, alcolista, talvolta violento, spesso depresso) è proprio sul musicista che Rolling Stone - si tratta pur sempre di una rivista rock - punta il dito. Citando molte fonti ormai dimenticate. Ad esempio un’intervista del 1978 all’Unità: «Sono un piccolo borghese e faccio canzoni solo per guadagnare». Oppure le critiche subìte da altri artisti come Guccini («Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni») o Gaber (si chiedeva se fosse «liberale o extraparlamentare»). E alla fine arriva a una conclusione: «De André era lucido nell’autocritica ma confuso in politica».
Che sollievo leggere queste considerazioni, anche se pronunciate con colpevole ritardo. Ma meglio tardi che mai. Negli anni Settanta il Bel Paese era funestato dai figli ingrati della borghesia pasciuta e benestante, teorici dell’«armiamoci e partite», che hanno riempito migliaia di teste di ideologia tragica e funesta. Oltre a rappresentare ben poco dal punto di vista della ricerca sonora, quasi nulla li differenziava dai cantanti del Festival di Sanremo, se non la verniciatura di «rosso» sulla rima baciata cuore-amore.
Fabrizio De André era uno di loro, come l’altezzoso De Gregori, l’avvelenato Guccini, il sopravvalutato Vecchioni. Borghesi, benestanti, ricchissimi, indifferenti alle vicende di quel proletariato che spesso citavano a sproposito nei loro testi. Rolling Stone continua così: «Ci conosceva bene, De André: noi popolo che si commuove per i vinti da lui cantati, poi vota i vincenti».
E poi ci sono le date a parlare. Nel 1974, mentre il cantautore genovese usciva con Storia di un impiegato, l’ennesimo peana sessantottino che anche la critica non ebbe il coraggio di sostenere più di tanto, Lucio Battisti compì una rivoluzione epocale pubblicando Anima latina, dopo un viaggio in Brasile con Mogol, un lp ricco di sperimentazioni sonore e vocali, senza nessuna hit, caraibico e mediterraneo, insomma un capolavoro, l’ennesimo capolavoro. E proprio tra Battisti e De André non correva buon sangue. Parlando di Faber su Oggi nel 1970, Lucio disse: «Le sue canzoni sono temini da liceali. Trovo i suoi testi interessanti ma piuttosto goliardici, dato che piacciono solo agli studentelli».
A stretto giro di posta per quei tempi, ossia l’anno dopo, De André rispose su Amica che Battisti era un ottimo musicista e molto avanguardia «ma in fondo ricalcava gli esempi di James Brown e Joe Cocker». E Rolling Stone ora nota: «De André di solito aveva una parola buona e sincera curiosità per tutti i colleghi: doveva proprio soffrirlo». Salvo poi notare che, al momento della morte di De André, nel 1999, «il lutto non fu paragonabile a quello che aveva attraversato la nazione alla morte del più popolare (nei vari sensi del termine) Lucio Battisti». Poi ci fu la «beatificazione» che adesso Rolling Stone contesta. Togliendo al genovese l’aura sacrale e postuma: «Musicalmente fu un po’ - come dire - piccolo borghese».. E di conseguenza dando ancora più luce a Battisti.
Non si tratta certo dell’ennesimo atto di revisionismo (e non sarebbe certo il caso di Rolling Stone, schierata politicamente a sinistra) o del repechage di un minore, visto che Lucio, senza l’appoggio dei critici, non esibendosi dal vivo e scomparendo dai media, non solo ha venduto molto più dei colleghi cantautori, ma ha anticipato di lustri ciò che sarebbe accaduto dopo, e non solo in Italia. Eppur non basta, se ci sarà un Battisti santo, almeno per la sinistra, avrà un altro nome di battesimo.
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