Prodi si arrende all’Europa dei ricatti

Ecco a voi gli innominabili. Neanche il ministro degli Esteri europeo potrà essere chiamato, domani, «ministro degli Esteri». Nessun riferimento alla bandiera né all’inno comuni ai ventisette Stati. Meno che meno un accenno sovversivo alle pur innocue radici cristiane. Così procede l’Europa terrorizzata dall’idea stessa che qualcuno nel mondo possa un giorno riconoscerla ed esclamare ad alta voce: eureka, ho trovato Europa! Un Continente che non sarà più vincolato alla cosiddetta Carta dei diritti fondamentali. E che voterà secondo le procedure concordate soltanto a partire dal 2017. Fra dieci anni! E che non applicherà il principio della legge uguale per tutti: per gli inglesi sarà un po’ più eguale che per gli altri. Ma anche per i francesi, che hanno depotenziato il principio della libera concorrenza, ossia uno dei miti dell’euro-retorica. Dopo il vertice di Bruxelles, i vedovi dell’europeismo potrebbero dunque ripescare e parafrasare l’annuncio degli araldi alla scomparsa dei Re di Francia: «La Costituzione è morta, viva la Costituzione». E gli spiritosi rifarsi a Woody Allen: «L’Europa è morta e anch’io non mi sento tanto bene». L’unica cosa che non si può fare dopo il compromesso che archivia l’ambizione di un’Unione degna del suo peso economico, oltre che della sua storia universale, è il consolarsi col pietoso «poteva andare peggio». O, per usare la formula dell’ecumenico Romano Prodi, «non siamo completamente soddisfatti». Completamente? Ma qual è il concreto ancorché parziale successo del governo italiano di fronte alle concessioni pretese e ottenute da inglesi, francesi, polacchi, cechi, olandesi, chiunque fosse impegnato a difendere non già un’astratta idea d’Europa da «volemose bene», ma il proprio e vitale interesse nazionale? Qual è lo strategico risultato che il nostro Paese porta a casa in mezzo ai sorrisi ostentati dai presidenti e primi ministri di tutti gli altri «alleati»?
Così come noi scriviamo «questo l’hanno strappato gli inglesi» o «quest’altro l’hanno conquistato i polacchi», che cosa mai i giornali stranieri attribuiranno alla «caparbietà di Prodi»? Qual è la novità, la sorpresa, la scelta europea che si deve esclusivamente all’impegno infaticabile del governo italiano?
Domande che già contengono l’amara risposta, visto che siamo rimasti i soli creduloni a guardare all’Europa da europei quali non siamo neppure anagraficamente: siamo italiani, fino a prova contraria. E se gli altri, tutti gli altri, si rifiutano di ragionare secondo un parametro continentale, se tutti gli altri considerano l’Unione soltanto una mucca da ungere il più possibile, e a scapito del vicino di campo e di confine, non si capisce perché dovremmo continuare a propagandare un buonismo inconcludente da Alice nel Continente delle meraviglie. Con tanto di istituzioni che ammoniscono e ammonivano: ma l’essenza del Trattato non si tocchi, altrimenti l’Italia si metterà di traverso.
L’essenza è sotto gli occhi di tutti. Nonostante i nostri verbali e soprattutto verbosi altolà, il trattato che istituiva la Costituzione per l’Europa è sepolto. Sono bastati gli scricchiolii di due Paesi su ventisette, i referendum francese e olandese che bocciarono la Carta, per rimettere in discussione ciò che andava, semmai, rafforzato ed esteso. «Meschini ripiegamenti sul passato», sottolinea il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in visita a Vienna. Equivoci.

Equivoci che sorgono anche quando si pensa che il futuro delle persone si costruisca a tavolino, senza realmente coinvolgere i cittadini, e con la riserva mentale di classi dirigenti che vanno a Bruxelles in nome di Londra, di Parigi o di Varsavia. Siamo solo noi che abbiamo paura di far valere il nome di Roma, mentre andiamo a caccia di farfalle.

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