Il Prof e gli italiani: metà statista e metà ct

La strategia del Prof: andare a vincere fuori casa sfruttando i vecchi vizi come fossero nuove virtù

Il Prof e gli italiani:  metà statista e metà ct

Cavour, Mussolini, Arrigo Sacchi, Mario Monti: quelli che provarono a cambiare gli italiani. L’ex rettore della Bocconi in fondo è solo l’ultimo della lista, con questa idea di guardare i propri connazionali e di volerli un po’ più consapevoli o austeri, simili ai tedeschi o con il sorriso orgoglioso degli americani, meno individualisti, con la squadra corta e le ripartenze e magari senza numeri dieci. Non è che Monti si è messo a teorizzare l’uomo nuovo. Non ha la vocazione totalitaria. È solo un professore, con un retroterra pedagogico e la passione segreta da commissario tecnico. È arrivato a Palazzo Chigi senza passare per le elezioni e questo per uno che vuole sovvertire la vita quotidiana degli italiani non è il punto di partenza più legittimo. Qualcuno potrebbe replicare: ma chi ti ha chiesto nulla? Ma, al momento, è un particolare. Monti non è un padre della patria e neppure uno da secondo impero. Se proprio bisogna immaginare un paragone in lui c’è qualcosa della testardaggine di Arrigo.
Come Sacchi vuole cambiare modello di gioco, far passare vecchi vizi come nuove virtù, andare a vincere fuori casa, puntare sull’intensità e sul sacrificio e pensare che all’estero sono comunque un po’ più bravi. Come Sacchi ha cominciato a chiamare il contropiede ripartenza. Come Sacchi ha l’appoggio di Berlusconi. Come Sacchi è innamorato del modulo. Come Sacchi in fondo sta vincendo. Come Sacchi preferirebbe guidare l’Olanda piuttosto che l’Italia. L’unica differenza è che Arrigo da Fusignano si è fatto da solo, Monti invece è un barone (universitario) già dai tempi del liceo Leone XIII a Milano. E poi Sacchi aveva Van Basten e ancora nessuno in Europa ha visto Passera segnare d’esterno dalla linea laterale. Al massimo la Fornero ha pianto come Baresi nella finale mondiale. Ma è un indizio, non una prova. La questione radicale resta comunque un’altra. Gli italiani devono cambiare? Sono capaci di farlo? L’italiano qualunque è volgare e malandrino o è l’élite a immaginarlo così per scusare la propria meschinità? Beppe Severgnini, sul Corsera, scrive che «ci ha danneggiati l’intelligenza (asfissiante), l’inaffidabilità, l’individualismo, l’ideologia e l’inciucio. Ci hanno aiutato la gentilezza, la generosità, la grinta, il gusto e il genio». Magari è vero. Magari è così. Non è mai facile avventurarsi sugli stereotipi. Di certo c’è una cosa: gli italiani non sono così rigidi e impermeabili. Sanno cambiare, sanno adattarsi, al tempo e allo spazio. Sono emigrati ovunque, smussando gli angoli, resistendo a pregiudizi e insulti, aggiungendo una «i» al cognome, stringendo i denti davanti ai dogo e ai maccheroni, improvvisando il tango e inventando un modo tutto loro di essere americani, francesi, argentini, perfino svizzeri. Sono passati attraverso la guerra e il giorno dopo hanno ricostruito un Paese sfruttando i dollari del piano Marshall e l’iniziativa privata. Sono andati dal Sud al Nord, con le poche ferrovie e il sogno unitario dell’autostrada del Sole. Si sono goduti il boom economico e hanno sperperato il futuro di figli e nipoti. Sono andati in bicicletta con l’austerity e si sono illusi che gli anni ’80 non sarebbero mai finiti.
Sono strani gli italiani. Non si fidano dello Stato e spesso a ragione, ma molti di loro visto che lo Stato li faceva campare si sono adeguati e ora rimpiangono i tempi del posto fisso e della raccomandazione per entrare al ministero. Però questo governo di professori, che parla di bamboccioni e di precari poco coraggiosi, almeno qualcosa riconosca a questa schiatta. È dal 1993, da quella manovra da 93mila miliardi di lire di Amato, che gli italiani fanno sacrifici, prendendo schiaffi una crisi dopo l’altra. Ogni volta con una scusa diversa: speculazione, paura, euro, i cinesi, lo spread. Ogni volta con l’impressione che sia sempre la stessa. Questa gente ha visto sparire la grande industria, evaporare la pensione, fare i conti con un welfare che protegge i furbi e lascia per strada i deboli. Monti chiede agli italiani di cambiare. La verità è che lo stanno facendo. Davvero i professori al governo pensano che i stracitati giovani sognano il posto fisso? Non sanno nemmeno cosa sia. Più di qualcuno neppure lo vuole. Hanno solo una grande paura: invecchiare aspettando Godot. Stare lì fuori dalle mura mentre dentro continuano a spartirsi gli ultimi privilegi. Anche i quarantenni sono cambiati, quelli che un tempo si riconoscevano in una x generazionale. Sanno che quella x fa parte del loro destino e si arrabattano a fare i conti con il mistero della loro identità, ma da tempo continuano a pagare contributi per una pensione da mezza miseria. In tutti questi anni, pensateci, hanno accettato tutti i sacrifici, borbottando, scuotendo la testa, ma con l’idea che bisogna farlo per costruire un futuro, per mettere le pezze ai balli in maschera del passato, ogni volta pensando che fosse l’ultima. Cambiare ancora? Ma sì, cosa ti può accadere in fondo. Quelli che non cambiano sono i generali.

Cambiano i nomi, i volti e la pelle, ma la classe dirigente si comporta come i grandi ufficiali in Un anno sull’altipiano di Lussu. Quelli che continuavano a ordinare cariche assurde nel nome del Dio del sacrificio. Ma un giorno questa crisi finirà.

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