Non v’è dubbio che Obama abbia assecondato, ogni volta con perfetta modulazione di voce, il desiderio di protezione statale dell’elettorato povero al quale deve la sua elezione. Inoltre, a metterle in fila, le sue promesse economiche possono iscriversi con coerenza in un programma keynesiano.
Tasse da calare per le imprese e i redditi più poveri, e da alzarsi per i ricchi; investimenti in infrastrutture; i salari minimi aggiustati; più deficit; qualche concessione al protezionismo: ripetono i punti fermi prediletti dai keynesiani. Eppure direi prematuro e imprudente vincolare Obama a uno schema mentale. È pur vero che costui ha usato l’armamentario del politicamente corretto di sinistra, tuttavia s’è rivelato più scaltro. Ha pure assecondato i network più potenti circondandosi di personalità che se ne sono resi garanti, con la finanza, i cubani, gli ebrei, o quant’altri. Egli è più incastrato, inglobato nell’establishment di quanto le folle di arrabbiati ai suoi comizi abbiano lasciato prevedere.
Tra l’altro il margine di voto popolare di cui egli ha goduto, il 52%, non è alto. A marzo l’aura messianica si sarà spenta, e intanto già la borsa e l’economia peggiorano. Insomma questo Obama ha il viso fotogenico, ma non quello di un talento negli affari economici. Le sue promesse reagiranno alle sue ansie, e agli eventi. E il suo keynesismo coerente nelle promesse della campagna elettorale se lasciato nel vago, dovrà, alla prova dei fatti, divenirlo molto meno. Facile il verificarlo, iniziando dalla promessa di aumentare l’aliquota per i ricchi al 39,6%, e di calare le tasse per i redditi più bassi, e per le imprese sotto il 35%. Essa produrrà, in recessione, più deficit e debito. Come l’idea di soccorrere almeno un poco i 47 milioni senza assicurazione sanitaria o i sottoscrittori di mutui nei guai. Ci sarà certo da capire quanto e come. Ma il calcolo è reso indeterminato soprattutto dai guai finanziari ancora in corso. Perciò non direi che sono questi i punti più difficili da attuare del programma di Obama.
Più incerta, anzi poco verosimile, a meno di una catastrofe, deve dirsi una radicale virata protezionista. Anzitutto per logica: i cinesi sono preoccupati, ma al contempo rassicurati, dal fatto che: più deficit e debito americano crescono più gli Stati Uniti devono venderlo a loro. Ovvio che a riguardo Obama potrà tirare la corda meno di quanto i suoi consiglieri in campagna elettorale abbiano lasciato credere. Keynes come è noto, elogiava i mercantilisti seicenteschi, ed approvò pure la rottura di Roosevelt con l’economia internazionale. Solo che allora l’America aveva più crediti e oro a riserva di tutti gli altri. Oggi le parte sono invertite. Circa poi il salario minimo che si vorrebbe aggiustare all’inflazione, è forse possibile. E però per divenire sensibile l’aumento implicherebbe una rigidità dei salari monetari che deindustrializzerebbe ancor più gli Stati Uniti, visto che devono tenere aperti i mercati per i motivi sopraddetti. E ancora: investire in infrastrutture era idea anche di McCain, ma il gran rischio e di esagerare, di rifare come Roosevelt. A costui non riuscì di sostituire l’accumulazione pubblica con quella privata. O meglio ci riuscì soltanto con la guerra. La qualcosa, essendo lo scrivente russofilo, è una di quelle ipotesi mercantiliste che neppure si vogliono qui considerare. Infine: la regolamentazione dei mercati. Certo che le follie speculative si smonteranno. Ma questa è altra cosa dall’accettare che il sistema bancario degli Stati Uniti e la sua finanza vengano così vincolate a regole europee o da una nuova Bretton Woods, controllati da un’authority esterna.
In cambio gli europei del resto hanno ben poco da dare per quanto riguarda la Nato, in Russia o in Afghanistan. Pure questo ultimo tema keynesiano, di un Keynes che tra l’altro venne sconfitto a Bretton Woods, ha insomma complicate probabilità di divenire obamiano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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