PSYCHO INTER

da Milano

Meglio di così non potevano festeggiare: cento anni di Inter armata di lucida pazzia. C’è tutto il senso di una storia che questa squadra ama ripetere all’infinito: occasioni buttate, illusioni perdute. Lo scudetto non è perso, ma l’Inter non è ancora sbucata da quel tunnel di nebbia che l’ha avvolta dal 17 febbraio in poi. Stranissimo, è passata attraverso il piovoso cielo inglese, si è trasferita da Napoli alla Liguria, ha toccato Roma e tutto il nord Italia, ma la nuvola non si è mai dissipata. Anzi, ieri il cielo plumbeo di San Siro non s’è lasciato mai traversare dal sole. E i tifosi hanno fischiato, qualcuno ha contestato, l’Inter manciniana sta diventando fantozziana.
Involuzione che chiama all’opera uno psicologo prima ancora che uno staff tecnico e medico, benché tutti abbiano contribuito per la parte loro. Il 17 febbraio l’Inter batte il Livorno, con una doppietta di Suazo. È pomeriggio ed alla sera la Juve completa l’opera: una punizione made in Del Piero, proprio al 45’ del primo tempo, inchioda la Roma a un «meno 11» che fa dire a tanti: campionato finito. Invece, guarda, guarda, da quel giorno il campionato della Roma è ricominciato ed è andato lentamente spegnendosi quello interista. La squadra nerazzurra si è imbolsita e imborghesita tra infortuni e infortunati e nella devastazione psicologica e calcistica prodotta dalle partite con il Liverpool: sconfitte, espulsioni, errori di mira hanno segnalato quello che sarebbe stato il refrain di questi ultimi tre mesi.
Antonio Cassano, il pupillo di Mancini, ha fatto intendere all’Inter che la via non sarebbe stata facile neppure in Italia. Quel giorno bastò Crespo ad evitare la frittata, prima della partita di San Siro con la Roma. Un gol di Totti fece tremare i nerazzurri, ma un gioiello di Zanetti convinse tutti che questo sarebbe stato ancora scudetto nerazzurro: Inter di nuovo a «più 11». Un bel muro che si è sgretolato davanti a tre sconfitte, tre pareggi e sei vittorie, che hanno segnato una incredibile inversione di tendenza rispetto al girone d’andata. L’attacco ha smesso di segnare o quasi, solo Cruz ha cercato di rinfrescare la fama. Ibra si è dissolto tra infermerie svedesi ed italiane. È sbocciato Balotelli, ma è stato un venticello fresco in un clima torrido di paure e tensioni.
L’Inter si è trovata intrappolata da tre sconfitte (Napoli, Juve ma soprattutto Milan), si è invischiata in prove di forza, dieci contro undici, anche in campionato dopo aver fatto l’esperienza di coppa. Certo, poi c’è stato lo stellone che non sempre ha guardato in giù. Contro il Genoa, Mancini pensava di portare a casa il successo: poteva essere l’ultimo colpo in testa agli avversari. Quel giorno la Roma perse il derby, l’Inter ritrovò un «più 7» in classifica che poteva essere «più 9», se Borriello non avesse rispolverato l’arte nei minuti finali. E, nel giro di tre giorni, il mondo si è capovolto: dalla domenica al mercoledì. Pari a Genova, sconfitta a Torino e di nuovo i gufi sulla spalla e Spalletti con i suoi lupetti a «-4». La prova di forza sul campo si è tramutata in tiramolla psicologico.
Gli interisti hanno fatto gara nel rovinarsi la vita. Sul campo hanno trovato la soluzione: squadra umile, tutti a giocar come provinciali. Gli effetti sono stati immediati: un ritorno a «più 6» dopo il Torino.

Poi lenta agonia: vittoria col Cagliari, sconfitta nel derby, e quest’ultimo pari devastante. Tutto dice che è tornata l’ora di vincere. Ma ormai chi ci scommette più? Solo Mancini, al quale piacciono i finali col thrilling.

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