Pubblica distruzione

Qualche giorno fa, per volere del ministro Fioroni, il Ministero dell’Istruzione è tornato ad essere Ministero della Pubblica Istruzione. La notizia è di quelle che provocano un sorriso amaro, misto a compassione. In epoca di globalizzazione dei saperi e degli strumenti mediatici che li veicolano, ritenere possibile resuscitare il fantasma dell’istitutore laico di un tempo, custode delle tavole sacre dello Stato e investito del compito di trasferirle da una generazione all’altra, è parso un rigurgito ideologico di statolatria anti-liberale, sgradevole ma privo di conseguenze concrete. Al di là delle denominazioni e della loro capacità evocativa, realizzare quell’incubo da Francia della III Repubblica è come ritenere possibile svuotare le piazze ricolme di macchine bianche in lotta contro il decreto Bersani, per riempirle di romantiche carrozze fornite di vetturino a cassetta.
Qualche giorno dopo, però, si è compreso che la trasformazione non ha natura soltanto semantica. L’incubo, ne restiamo convinti, non si realizzerà, ma non tutto si è fermato al semplice cambio della denominazione di un ministero. Da fonte sindacale si apprende, infatti, che nella giornata di oggi, in sede di «sequenza contrattuale», i sindacati proveranno a svuotare parte consistente della riforma Moratti sul primo ciclo d’istruzione, senza clamori e lontano dai riflettori della grande ribalta politica, mentre il ministro dell’Istruzione Pubblica starà a guardare senza che sia neppure dato sapere se sia o no compiaciuto.
La cifra concreta dell’operazione è consistente. Attraverso l’intesa contrattuale s’intende, innanzitutto, abrogare la figura del tutor che rappresenta uno dei punti qualificanti della riforma del centrodestra. Quindi la possibilità della Scuola d’accedere a competenze esterne per rispondere alle attitudini personali dell’allievo. Infine, si vuole eliminare la possibilità di reclutare nuove professionalità atte a garantire il previsto anticipo per la fruizione della scuola d’infanzia. La cifra ideologica è ancora più evidente. Basta leggere i commi del testo normativo del quale si chiede la disapplicazione. In essi si norma la personalizzazione del piano di studi; la cura delle relazioni con le famiglie; la considerazione del percorso educativo compiuto dall’allievo al fine di esaltarne le attitudini specifiche. Si vorrebbero così mortificare quegli aspetti della riforma che hanno posto una particolare enfasi sulla centralità della persona e sul ruolo delle famiglie, al fine di trasformare l’istruzione in un servizio che il più possibile si adatti alle caratteristiche peculiari di ogni singolo studente, anziché imporgli un sapere standardizzato che presuppone un ideale di statualità condiviso, buono per ogni stagione e adattabile a qualsiasi personalità.
Fin qui l’operazione può considerarsi politicamente riprovevole ma legittima, se considerata dal punto di vista di una nuova maggioranza che vuole smentire l’orientamento del governo che l’ha preceduta. Invece, è semplicemente ingiustificabile che la si scarichi sulle spalle di una contrattazione pubblica, al riparo da ogni confronto e senza assumersi nemmeno l’ombra della responsabilità politica. Questo modo di procedere cambia la natura della posta in gioco, perché in uno Stato che consente ad un contratto di disapplicare norme che hanno forza di legge, il principio di legalità perde ogni tutela effettiva.
Ci si potrebbe rispondere che ciò è concesso dal decreto legislativo 165 del 2001, il quale concede alle parti di stipulare anche in deroga di alcuni aspetti della normativa. Ma, nel nostro caso, mancando un atto d’indirizzo del governo, si lascia il campo sgombro al volere dei sindacati i quali hanno bloccato il contratto fin quando c’è stato l’esecutivo ostile e l’hanno resuscitato appena giunto il governo amico, senza avere neppure la compiacenza di domandare permesso. Essi si predispongono così a innovare la legislazione nel silenzio del governo e sancendo la sostanziale vacanza del Parlamento. Si tratta di una procedura al limite dell’eversione istituzionale. Su di essa il ministro Fioroni è chiamato a pronunciarsi, anche in nome di quel principio di statualità che sembra stargli tanto a cuore. Così come i presidenti di Camera e Senato hanno il dovere di tutelare le competenze legislative delle istituzioni che presiedono. Essi, in questo caso, debbono scegliere tra il loro presente e il loro passato.

Hanno l’occasione di chiarire se si considerano le massime cariche di una Repubblica che la Costituzione vuole a centralità parlamentare o gli apripista di una forma di governo nel quale il ruolo delle Camere deperisce per far crescere quello di corporazioni e lobby settoriali: insomma, di una nuova Repubblica dei sindacati.

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