QABBALAH L’eloquente parola del disegno mistico

In un racconto di Jorge Luis Borges, un mago decide di sognare un uomo - pezzo per pezzo: un polmone, gli occhi, poi un piede, il torace, il naso, infine il cuore - e di imporlo alla realtà. Dopo numerose prove e alcuni fallimenti, il mago realizza il suo sogno, proprio mentre sente avvicinarsi la morte; un incendio divora le rovine del santuario dove egli abita: «Andò incontro ai lembi di fuoco. Essi non morsero la sua carne, lo lambirono, lo inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiltà, con terrore, comprese che anch’egli era una apparenza, che un altro stava sognandolo».
Nulla ci vieta di postulare l’esistenza di un unico sognatore: Dio, e che, conseguentemente, egli non abbia fatto l’Universo, ma l’abbia semplicemente sognato. Secondo le religioni ebraica e cristiana, invece, Dio l’avrebbe più verosimilmente nominato. Prova ne sarebbe che l’Universo è tutto ed esclusivamente in ciò che possiamo definire. Anzitutto parla Dio, il quale creando il cielo e la terra dice: «Sia la luce». Solo dopo questa parola divina «la luce fu» (Genesi 1, 3-4). La creazione avviene per un atto di parola, e solo nominando le cose che via via crea, Dio conferisce loro uno statuto ontologico: «E Dio chiamò la luce “giorno” e le tenebre “notte” (...) \ dichiarò il firmamento “cielo”». Analogamente, nel testo cabalistico Sefer Yesirah si legge: «Queste sono le ventidue lettere a mezzo delle quali Iddio ha operato. Da esse ricavò tre numeri e da esse Egli creò l’intero mondo. A mezzo di esse Egli formò l’intera Creazione e tutto ciò che dovrà essere creato».
All’inizio del suo Qabbalah visiva (Einaudi, pagg. 497, euro 75), Giulio Busi riporta un breve apologo talmudico. In una scuola rabbinica il maestro invita a guardare un disegno sul muro: «Gli uomini possono tracciare una forma su di una parete ma non sono in grado d’infonderle spirito e anima... eppure ciò non vale per il Santo, sia Egli benedetto, che disegna una forma entro l’altra e v’infonde poi spirito e anima... perciò si può ben dire che non vi sia un disegnatore pari al nostro Dio». Fu intorno al primo secolo, ad Alessandria, che nel giudaismo all’immagine del Dio autore della Bibbia iniziò a sovrapporsi l’immagine del Dio architetto, «l’artista sommo, capace di abbozzare il diagramma del mondo per mutarlo poi nei volumi e nelle superfici della natura». Ed ecco che - spiega Busi - a partire dal XIII secolo il corredo grafico diventa «una componente fondamentale di molte importanti opere cabalistiche».
Già autore, assieme ad Elena Loewenthal, del monumentale La mistica ebraica - dove venivano proposti per la prima volta in Italia in modo organico alcuni testi fondamentali della cabala - Busi tenta per la prima volta una storia del disegno mistico nella tradizione giudaica, dai simboli magici che a partire dal II secolo compaiono sugli amuleti contro le malattie a quel cabalista di Bagdad che fra XVIII e XIX secolo tradusse iconograficamente gli scritti del rabbino ferrarese Refa’el Immanu’el Ricchi. Sullo sfondo di questa vastissima ricognizione, aleggia un dilemma critico. Se è vero, come sosteneva Joseph Aškenazi, «che l’intera creazione sia il risultato di una serie successiva di prove di figurazione metafisica», e che dunque il Creatore abbia avuto bisogno di uno schema per porre in atto la propria opera, obbligandosi a calcolarla... se, dunque, l’Universo è armonico (così come Galileo, Newton, Einstein e Hubble, con i loro modelli, ci hanno confermato), siamo sicuri che Armonia e Onnipotenza siano concetti omogenei? Un Dio onnipotente non avrebbe forse potuto costruire un mondo casuale che sfuggisse ai nostri calcoli?
Così, già in un trattato del II secolo, si proibiva di diffondere gli insegnamenti sull’Opera della Creazione, poiché «il rischio consisteva probabilmente nelle teorie sulle premesse concettuali della creazione, ovvero proprio sull’elaborazione, da parte di Dio, di un disegno astratto, che si sarebbe poi realizzato nel mondo materiale». Per fortuna, in molti contravvennero a tale divieto, per il nostro piacere. Così, adesso, possiamo ammirare lo zodiaco della sinagoga di Sefforis, con le storie delle vite di Abramo e di Aronne al di sopra e al di sotto del diagramma zodiacale; e alcune miniature del XV secolo raffiguranti le sefirot (le emanazioni divine) in corrispondenza dei sette bracci del candelabro; e le diagonali delle opposizioni logiche disegnate da Mosè Maimonide; e «la tenda del cielo» raffigurata da El’azar da Worms.
Uno dei capitoli più interessanti del libro di Busi è dedicato alle lettere dell’alfabeto ebraico. A proposito dell’alef, il cabalista Ya’aqov (vissuto nel XIII secolo) scrive: «Ed ecco comincio a disegnare l’alef e a discuterne la forma... Devi ora comprendere la forma dell’alef bianca interiore e di quella nera esteriore... Ciò ti insegna che la forma interiore corrisponde al Santo... La forma esteriore corrisponde invece al mondo...». Commenta Busi: «Le lettere sono allora metafora del creato e l’alternanza grafica del nero dell’inchiostro e del bianco della pagina allude al rapporto tra il mondo e Dio».
A proposito dell’Alef, ricordo un aneddoto curioso. Racconta rabbi Akiba che Alef si lamentò con Dio, poiché questi aveva cominciato la creazione del mondo con Beth; infatti il Genesi inizia con la lettera beth nella parola b’ereshit («in principio»). Allora Dio promise che proprio con Alef avrebbe dato inizio ai Comandamenti. E infatti è scritto: «Anokhi ha-Sham Elohekha» («Io sono il Signore Dio tuo»). Anche da questa favoletta si può comprendere quanto la mistica ebraica sia distante dall’affermazione hobbesiana secondo cui la parola non è altro che un segno convenzionale.
A partire dal Seicento va in crisi il mito della «lingua perfetta», cioè la lingua con cui Dio comunicò con Adamo, dove le parole erano uguali alla natura stessa delle cose. Alla presunta corrispondenza di questa lingua con l’ebraico antico (ancora postulata nel 1679 da Athanasius Kircher) Richard Simon e Leibniz non credono più: si fa strada una teoria che potremmo definire materialistico-biologica delle origini del linguaggio, come naturale attitudine a trasformare le sensazioni primarie in idee e quindi in suoni a scopi di civile convivenza.

Al mito di una lingua di Dio e alla conseguente reazione positivistica, risponde una nuova scienza del linguaggio, la semiotica, e solo con gli strumenti da essa predisposti siamo in grado, se non di risolvere, almeno di formulare in termini tecnici la domanda se esiste prima la parola o la cosa, e in quali rapporti cose e parole stiano.
Eppure, sfogliando le pagine del libro di Busi ed ammirando il vasto apparato iconografico, restiamo ancora una volta affascinati da questo incipit: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu».

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