Quando Bob Dylan tornò sulle scene e mise a ferro e fuoco le platee osannanti

Il cantante mancava sul palcoscenico da otto anni. Chiamò la Band e diede vita a uno spettacolo celebrato da un cofanetto con ventisette concerti

Quando Bob Dylan tornò sulle scene e mise a ferro e fuoco le platee osannanti
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Bob Dylan è un tipo difficile. Non ha mai parlato molto in compenso ha scritto fiumi di canzoni o poesie. Ci sono numerosi inediti a testimoniarlo se si pensa che già nel 1982, presso l'editore musicale M. Witmark & Son, aveva depositato quasi 250 brani per ottenere il copyright per la pubblicazione. Dylan era frenetico nello scrivere, ma molte di quelle canzoni sono state cedute dall'editore ad altri, chissà quante però sono ancora in giro. Un caso lampante è quella della vivace The Mighty Quinn (The Eskimo), che prima dell'incisione italiana fu registrata persino in Italia dai DIk Dik come L'esquimese.

Nel 1974 dunque Bob Dylan aveva già un repertorio vastissimo e decise - dopo otto anni di digiuno dal palcoscenico - di portarlo in concerto. Era dal 1966 che il cantante non saliva sul palco e il digiuno era febbrile. Si era esibito solo all'Isola di Wight e al concerto per il Bangladesh però con brevi performance. Decise quindi di prendere con sé i fedelissimi di The Band (guidati da Robbie Robertson e dal batterista Levon Helm) il gruppo americano più fedele al rock delle radici, e di portarli in giro per gli States. Gli ultimi due concerti - a Los Angeles - sono raccolti nel doppio Before the Flood, ma ora la Sony, nel cinquantesimo anniversario dell'evento, pubblica 27 di quegli storici show nel cofanetto Dylan & The Band: The 1974 Live Recordings.

Il sodalizio con The Band procedeva ormai da tempo, da quando tutti insieme si chiusero in una casa a Woodstock per incidere i celeberrimi Basement Tapes, manifesto di rock e di «americana» pubblicati poi integralmente nelle Bootleg Series (nel volume numero 11 della serie) in un prezioso cofanetto di 6 cd.

La vita insieme era spensierata a surreale in quei tempi; per fare un esempio, un giorno qualcuno portò in casa un maiale e disse: «vorrei tenerlo, ma come facciamo per la puzza?». E Levon Helm gli rispose: «Vedrai che non gli darà fastidio». La cosa importante comunque è che vennero fuori ore di grande musica, così come da questi concerti, non tutti quelli del tour ma solo quelli ben registrati, quindi anche la qualità del suono è ottima. Si spazia da un vibrante country rock a un rock ringhioso e ogni sera l'affiatamento è sempre più forte.

È un piacere ascoltare brani che dal vivo non si ascoltavano da tempo come la cupa Ballad of Hollis Brown, storia -basata su di un solo accordo - di un uomo che uccide se stesso, la moglie e i cinque figli perché non ha nulla da mangiare (con quella frase finale piena di speranza che dice «ci sono sette persone morte in una fattoria del Sud Dakota/da qualche parte lontano sono nate altre sette persone»).

C'è anche la prima volta di Forever Young, ogni sera diversa ed evocativa e tutti i classici dell'epoca con l'apertura degli show (i primi) affidata a un brano come Hero Blues che Dylan aveva suonato pochissime volte agli inizi degli anni Sessanta.

Naturalmente c'è spazio per qualche brano in solitudine, che convince con quella voce secca e roca che con gli anni diventerà un flebile rigurgito, come It's All Right Ma (I'm Only Bleeding), un inno cui il cantautore è particolarmente affezionato e che esegue ogni sera fino ai trionfali show di Los Angeles, in cui tra il pubblico spiccano una valanga di celebrità del mondo del cinema e del rock.

Chi fosse interessato al glorioso percorso artistico di The Band può recuperare l'album (o vedere il film di Martin Scorsese) The Last Waltz, il loro ultimo spettacolare concerto con decine di ospiti - da Van Morrison a Neil Young a Joni Mithcell con la conclusiva e corale I Shall Be Released cantata da tutti insieme ma guidata da Bob Dylan.

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