Quando De Benedetti tramava in politica: come ha fatto fortuna

Dal colpo di mano sui cellulari, alla rete telefonica Fs in omaggio, al giallo della Seat: vita e "miracoli" del finanziere piemontese. Che nel ’91 tentò di rovesciare l’esito delle elezioni e portare al governo il Pci. Così

Quando De Benedetti 
tramava in politica: 
come ha fatto fortuna

La verità, come si sa, è sempre rivoluzionaria. Pochi la cercano e molti la temono. Altri, invece, pensano di poterla «governare» a proprio uso e consumo e tra questi, da sempre, ci sono gli amici di Repubblica. Ogni tanto partono in quarta come se fossero scesi qualche minuto prima dal monte Sinai sul quale avrebbero ricevuto, di volta in volta, le tavole della verità da comunicare al mondo. E come sempre è capitato nella storia dell’Uomo, chi inveisce moralisteggiando contro tutti dimentica di avere alle sue spalle ombre lunghe e inquietanti. Ma veniamo al fatto. Chi, come il Giornale ed altri, ha cominciato a indagare sui conti di casa Agnelli e sulle probabili evasioni fiscali lo ha fatto solo perché ha raccolto le notizie da uno dei massimi esponenti di quella famiglia, la figlia dell’Avvocato signora Margherita. Apriti cielo. Il simpatico Giuseppe D’Avanzo che sa sempre tutto su tutti tranne che sul suo editore Carlo De Benedetti, ha intimato di fatto al nuovo direttore del Giornale (ma perché solo a lui?) di dire anche tutte le malefatte, vere o presunte, di Silvio Berlusconi se voleva continuare le indagini sulle evasioni fiscali, anch’esse vere o presunte, di casa Agnelli. D’Avanzo sa che noi lo stimiamo e che per tale stima seguiamo passo dopo passo le sue orme.

Se dobbiamo fare la storia di Mediaset o quella personale di Berlusconi, come chiede D’Avanzo è giusto che anche lui faccia la storia personale e politica di Carlo De Benedetti, l’editore autorevole e illuminato del gruppo Repubblica-Espresso. Se dobbiamo sposare la Verità, e noi più di altri ne siamo affascinati, volgiamo dunque lo sguardo a 360 gradi cominciando proprio da chi predica legalità e santità e cioè dall’editore di Repubblica. In questa ricerca vogliamo dare una mano al caro D’Avanzo che forse non ricorda alcune vicende della storia italiana, quelle vicende che pure tanta devastazione produssero sul sistema politico-economico italiano. Per brevità non vogliamo ricordare la vicenda del gruppo alimentare Sme che De Benedetti stava acquistando per poche lire e che Giuliano Amato, per nome e per conto di Bettino Craxi, impedì con un intervento durissimo nella commissione Bilancio della Camera dei deputati.

Vedremo tra poco come Giuliano Amato, anni dopo, si fece perdonare dall’amico Carlo. Partiamo, invece, dal progetto «politico» che Carlo De Benedetti, con l’accordo anche di Gianni Agnelli, mise a punto nei primi mesi del 1991 per cambiare gli assetti politici che l’Italia si era democraticamente dati e per portare al governo del Paese il vecchio Pci che a Rimini stava «espellendo» la sua area più dura, quella che poi assunse il nome di Rifondazione Comunista. Nel marzo del ’91 De Benedetti chiese all’allora ministro del Bilancio Cirino Pomicino se voleva «essere il suo ministro» dopo avergli spiegato le ragioni del progetto e i suoi protagonisti. Quell’offerta, tra l’altro, per come fu fatta, dimostrò la concezione «proprietaria» che De Benedetti aveva della politica e che si impose in Italia sin da quegli anni anche se, per l’eterogenesi dei fini, con altri protagonisti.
Ma la vocazione proprietaria della politica di Carlo De Benedetti era sempre finalizzata a questioni economiche. E, infatti, il 28 marzo 1994 il carissimo Carlo Azeglio Ciampi quando stava per lasciare Palazzo Chigi perché gli amici sponsorizzati da De Benedetti (Occhetto e compagni) erano stati sconfitti alle elezioni un giorno prima da Berlusconi, decise il vincitore della gara d’appalto per il secondo gestore dei telefonini in Italia. Il vincitore fu naturalmente Carlo De Benedetti. Gli sconfitti, la cordata Fiat-Fininvest. Siccome «ciascun dal proprio cuor l’altrui misura» Carlo De Benedetti immaginò che il proprietario della Fininvest sconfitta, una volta arrivato a palazzo Chigi, avrebbe di fatto revocato alla Olivetti la licenza di secondo gestore della telefonia mobile. Così naturalmente non fu e il moribondo governo Ciampi, figlio dell’intrigo di palazzo, si comportò come i generali nazisti che con gli americani alle porte fuggivano bruciando le ultime carte e fece nascere la Omnitel di Carlo De Benedetti che realizzò uno dei migliori affari della sua vita. Ma all’ingegnere d’Ivrea non bastava. Il compianto Lorenzo Necci presidente delle Ferrovie di Stato, aveva concluso nel dicembre del 1993 con la Telecom pubblica di Ernesto Pascale la vendita della rete telefonica ferroviaria per 1.100 miliardi di vecchie lire.

Ma Giuliano Amato, nominato alcuni mesi dopo da Silvio Berlusconi presidente dell’Antitrust, si mise di traverso suggerendo addirittura a Lorenzo Necci quale dovesse essere il destinatario della rete telefonica ferroviaria e cioè la Omnitel di Carlo De Benedetti probabilmente per farsi perdonare il suo acerrimo contrasto all’acquisto della Sme di alcuni anni prima. E così fu. Il prezzo concordato fu di 750 miliardi di lire (350 in meno del prezzo pattuito tra Stet-Telecom e Fs) e il pagamento fu rateizzato in 14 anni con rate annuali di 76 miliardi sempre di vecchie lire. Roba un po’ da ridere.

Qualche tempo dopo Omnitel-Infostrada governata a quel tempo dal duo Colaninno-De Benedetti fu venduta ai tedeschi della Mannesman per 14mila miliardi senza, naturalmente, alcuna rateizzazione. Potremmo continuare a «spigolare» qui e là a cominciare dalla scandalosa vicenda Seat-Pagine Gialle che in poco più di 30 mesi passò dalla Telecom pubblica alla società Otto e poi di nuovo alla Telecom privata con una plusvalenza di oltre 14mila miliardi. Nella cordata iniziale che si candidò a comprare la Seat dalla Telecom c’erano insieme a Comit, De Agostini, Bain Cuneo, B.C. partner, Cvc partner, Investitori associati, anche il gruppo editoriale Espresso-Repubblica, che comunque ne uscì prima che l’acquisto fosse concluso.

Resta il fatto che ben il 42% della società che acquistò la Seat e che quindi realizzò la scandalosa plusvalenza era nelle mani di azionisti sconosciuti e collocati nei paradisi fiscali. Carlo De Benedetti e il principe Caracciolo non c’erano più nella cordata ma un tarlo malizioso c’è sempre nella nostra testa. E, come dice il vecchio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma si indovina.

Ci fermiamo qui lasciando al nostro amico D’Avanzo di continuare la carrellata. Se ha difficoltà potrà sempre chiamarci, ricordandogli, in ultimo, che senza l’iniziale progetto politico di De Benedetti, Berlusconi non sarebbe mai sceso in politica.

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