Quando l’evoluzionismo regredisce

Il caso del biologo che partecipò alla scoperta del Dna senza però abbracciare il darwinismo

Nello Struggle for life, la lotta per la vita, vale la dura legge di natura e del più forte. Ma a volte sembra naturale prendere le parti e le difese del più debole. Gli spettatori del film di Stanley Kramer E l’uomo creò Satana, versione anni ’60 del processo della scimmia del 1925, fecero il tifo per il professor John T. Scopes, cui a nulla valse la difesa di Clarence Darrow - «il principe del foro americano», interpretato sullo schermo da Spencer Tracy - contro l’accusa di aver introdotto l’insegnamento dell’evoluzione darwiniana nell’high school di Dayton, Tennessee, profondo Sud battista Usa.
Sotto i flash e gli obiettivi dei reporter, la battaglia legale prese subito le proporzioni di uno scontro epocale: «tra il mondo moderno figlio del dubbio e della ricerca, e il mondo antico figlio della paura e della fede», dichiarò l’avvocato ai giornalisti. Trent’anni dopo la contesa in aula si sarebbe ancora recitata come una lotta tra l’oscurantismo delle superstizioni e i lumi della scienza: sotto i riflettori e la cinepresa del regista che, col marchio della Hollywood progressista, consegnava all’immaginario Usa le immagini del processo del secolo.
I lettori del libro di Giulio Meotti, che di Il processo della scimmia (Lindau, pagg. 246, euro 19,50) racconta la clamorosa versione anni Duemila, faranno invece il tifo per i professori di Dover, condannati - alla corte federale di Harrisburg, nel dicembre del 2005 - per aver inserito la teoria del Disegno intelligente nel piano di studi della scuola superiore locale. Stessa ambientazione: il Sud degli Stati Uniti. Stessa scena: uno scontro legale sull’origine delle specie. Stessi protagonisti e antagonisti: tolti ai banchi di scuola e chiamati al banco degli imputati. Stesso titolo per la drammatica contesa: tra i figli del dubbio (sulla verità assoluta ed esclusiva dell’evoluzionismo) ovvero della ricerca (di un’altra ipotesi, dal senso misterioso, religioso, divino), e i figli della fede (nei valori positivi di progresso, evoluzione, scienza, ragione) ovvero della paura (di tutto quanto potrebbe oscurarli). Ma gli attori si sono scambiati i ruoli. Le parti si sono invertite. I rapporti di forza rovesciati. E, ottant’anni dopo il primo atto del suo processo, la scimmia, vendicata, batte la creatura. Coup de thêatre e gran finale.
Del lungo dramma però, a Meotti non interessa il lieto fine, bensì quel che è successo durante l’intervallo. Non è un regista hollywoodiano, fautore di happy end. È un giornalista del Foglio quotidiano, laureato in filosofia e messo all’erta, per vocazione di studi e professione, sulla devozione degli atei e i dogmatismi dei laici. Sulla teoretica indisciplina delle teologie promosse a programmi di scienza e delle scienze propugnate con la cecità di fondamentalismi religiosi. Sui nefasti eufemismi che mettono la bella maschera dell’etica (o bioetica) a ideologie propugnate a buon fine oltre il limite delle soluzioni finali. Cominciando dalla parola ottimistica «evoluzione» che, ammetteva il suo stesso inventore, Charles Darwin, presuppone una selezione mirata «alla conservazione dell’utile». Per finire con l’espressione ottimizzante di «eugenetica»: esito ultimo - secondo Chesterton, che nel 1924 denunciò le nefandezze della «nuova chiesa evoluzionista» - «di un sistema di pensiero inaugurato dalla teoria darwiniana e professato come un credo».
Tra l’Origine (delle specie) e la fine (poco lieta) c’è solo cinicamente da divertirsi a pescar fuori tra le scrupolose ricognizioni di Meotti le belle parole con cui, nell’intermezzo, si è fatta professione di fede. Dalle «estinzioni graziose»: ossia, nella definizione del New York Times, la sterilizzazione degli inadatti praticata in Usa negli anni Venti, all’«eutanasia»: versione edulcorata della «dolce morte» di handicappati e invalidi. Dall’«aristocrazia della salute», suggello di nobiltà sui matrimoni presbiteriani celebrati per la procreazione dei sani, al «bene pubblico», «altruismo», «carità» in nome dei quali si auspicava la soppressione «di malati, stupidi, gobbi e zoppi».
Filantropia sedicente e antropofagia mascherata. Vero «cannibalismo terapeutico», diceva uno che chiamava le cose con il loro nome. Si chiamava Erwin Chargaff e non era tipo da parlare a vanvera. Parlava da biologo molecolare: «l’unico scienziato che avesse partecipato alla scoperta del Dna senza abbracciare il darwinismo», nota Meotti dedicandogli il suo lavoro. E parlava da poeta «logofilo»: innamorato di parole che sapeva «cristalli di lacrime e gioia». Per trovarle come tesori nascosti nei recessi della vita il biochimico outsider che fu allievo di Karl Kraus, cultore di Goethe, lettore di Hamsun, amico di Ernst Jünger, non andava certo a cercarle nelle pagine di scienziati e scientisti. Il lampo di un cristallo incastonato in un diario di Jünger avrebbe rivelato una scoperta a lui che si era attorcigliato sulla doppia elica del Dna: «Sino a oggi si sono già individuati ventidue ormoni che la ghiandola pituitaria secerne.

Per quanto innanzi questo spirito possa spingersi, rimane sempre un progresso di pura raffinatezza. Si avvolge nell’atto del conoscere come all’esterno di un cilindro, spiralmente, verso l’alto. Ma la verità riempie il suo interno».

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