"Quando mandai a quel paese il povero Mike Bongiorno"

È attore e regista, ma anche figlio di Raffaele, uno dei protagonisti della tv italiana dei primi decenni: "I fan gli strappavano i vestiti di dosso"

"Quando mandai a quel paese il povero Mike Bongiorno"

L'avvenire di Antonio Pisu è tutto da scrivere ma la provenienza ha un marchio di fabbrica prestigioso. Non c'è bambino degli anni Sessanta e Settanta che non ricordi Provolino, mitico pupazzo che faceva da spalla a Raffaele Pisu, 16 anni prima che Antonio nascesse. E ossessivamente ripeteva quello che è diventato un mantra - «Boccaccia mia statti zitta» - oggi forse caduto in disuso ma non certo nell'oblio. Antonio Pisu è ciò che tutti definiscono un figlio di, usando il peggiore dei modi possibili per collegarlo alla celebrità di uno dei padri della televisione italiana. Eppure, lui di quel cognome non si è servito. Papà, insomma non è mai stato il suo sponsor nell'era in cui scuderie e squadre di famiglia la facevano da padrone. Trentaquattro anni di una simpatia che maldestramente maschera un'introversione di fondo, tanto teatro e due film. Il secondo - Est, dittatura last minute - ha provato in ogni modo ad arrivare in sala ma un Conte senza sangue blu gli ha chiuso i cinema in faccia. Così ha dovuto ripiegare sulle piattaforme (Sky Primafila, Prime video, Apple tv, Cg entertainment, Chili, Google play, Infinityi, Rakuten, Vativisione e #iorestoinsala) dove è disponibile con varie formule. È la storia di un viaggio realmente compiuto da tre giovani di Cesena, nelle ultime settimane della dittatura di Ceausescu.

Come è nato questo progetto.

«Maurizio Paganelli, che è uno dei produttori, mi ha parlato di quella vacanza e io mi sono innamorato del contesto e del contenitore. Si è trattato di arricchirlo con una trama romanzando un po' gli eventi».

E oggi, da adulto, che idea si è fatto di quegli anni che da bambino non ricorda.

«È stata un'esperienza socio-politica allucinante. Non conoscevano la Coca Cola. I vestiti. Neppure mutande o reggiseni. Insomma, beni tanto comuni da essere scontati».

È stato a Bucarest?

«Ho studiato tanto questo Paese, poi sono andato lì per documentarmi e stare con loro. Viverci insieme. Conoscerli. Hanno una solida tradizione cinematografica ma sempre in prospettiva dittatoriale. Io volevo rappresentarli dal punto di vista di chi ne sapeva poco o nulla. Ovvero, il nostro».

E che sensazione ha tratto

«Se c'è stata una rivoluzione vuol dire che, in fondo, non era troppo accettabile nemmeno per loro».

Nel film usa anche materiale d'archivio. Dove l'ha ricavato...

«Mi ha aiutato Striscia la notizia che mio papà fece proprio quell'anno. Se vogliamo, è una citazione. Un omaggio a lui».

Già, Raffaele Pisu e il 1989. Forse l'ultima apparizione in tv.

«Condusse Striscia fino al '92. Poi prese me e mia madre e lasciammo l'Italia».

Scelta di vita.

«Di morte, più che altro».

In che senso.

«Era convinto che di lì a poco se ne sarebbe andato. Voglio passare gli ultimi anni ai Caraibi disse. Così ci trasferimmo a Santo Domingo».

Ma sbagliò previsioni.

«Esatto. Un giorno si svegliò e se ne uscì ironico: Vabbè, non sono morto, torniamo indietro. Era il '95. Io feci la terza e la quarta elementare laggiù e la quinta in Italia».

Che tipo di papà è stato

«Inquieto. Onesto. Sincero. Ma severo».

Partiamo dal primo aggettivo.

«Non era capace di stare fermo. A 93 anni aveva scritto un progetto per una trasmissione in tv. Tra tournée, film e impegni vari suoi, ho cambiato più case degli anni che ho».

Ma avrà avuto momenti di pausa.

«Aveva l'hobby della pittura. Amava dipingere. È arrivato lucido fino all'ultimo, proprio perché non si è mai seduto. Non si è mai arreso. Quando si molla è la fine».

Secondo aggettivo. Onesto.

«Ho sempre voluto fare l'attore. Da piccolo lo facevo anche di nascosto. Quando ho trovato il coraggio di dirglielo mi ha risposto: Guarda, sarò onesto. Ti vengo a vedere in teatro e, se non mi piaci, te lo dico. Così apri un'officina meccanica».

Invece

«Mi ha detto solo Continua».

E lei si è inorgoglito.

«L'ho ringraziato per la sincerità».

E addio officina.

«Non mi immagino in altri lavori. Continuerei a fare film in eterno».

Ha già nuovi progetti?

«Vorrei girare Nina dei lupi, romanzo distopico di Alessandro Bertante. Partecipò al premio Strega».

La distopia va di moda al cinema.

«È involontario. Se ci penso bene, non ho ancora fatto niente ambientato nella mia epoca. Un caso da psicanalisi».

È stato difficile non dire di essere figlio di Raffaele Pisu?

«Papà ha voluto che facessi tutti i casting del caso. Si è rifiutato di presentarmi, insomma. Altrimenti non sarai mai te stesso - diceva - ma soltanto un figlio d'arte».

Pure severo, quindi. A proposito di figli celebri, ha familiarizzato con qualcuno di loro

«Ho lavorato con Giampiero Ingrassia e Gianluca Guidi ma apparteniamo a generazioni diverse e fare amicizia è difficile. Ingrassia ne ha 58 e Dorellino 53. Ballano una quindicina d'anni abbondanti rispetto ai miei 36. Altri, come Gassman, non li conosco neppure».

Papà Johnny l'avrà visto.

«Una volta alla fine di uno spettacolo. Era venuto a vedere Gianluca. Ci siamo detti Buonasera, piacere. Non posso dire di conoscerlo».

Accanto a Raffaele Pisu avrà avvicinato qualche volto noto.

«E ho inciampato in gaffe».

Ad esempio.

«Un giorno risposi al telefono. Era Mike Bongiorno con il suo solito tono di voce, come se presentasse sempre Rischiatutto. Cercava papà, io pensai a uno scherzo. Lo mandai volgarmente a quel paese e riattaccai».

E lui

«Ha ritelefonato un attimo dopo. Ho temuto il peggio, invece finì tutto con una risata».

Il rapporto padri-figli ha riservato anche sorprese a casa Pisu.

«Già, solo in tarda età mio fratello Paolo Rossi Pisu ha scoperto di essere figlio di Raffaele».

Sarebbe a dire

«Sua madre glielo ha tenuto nascosto tutta la vita, rivelandogli la verità poco prima di morire».

Come mai questo silenzio

«Incomprensibile. Papà ebbe una relazione con quella signora, ai tempi del primo matrimonio, ma non seppe mai nulla della gravidanza. Finché un giorno alla nostra porta di casa suonò Paolo. E ci raccontò la sua storia».

Strano colpo per suo papà.

«Ci rimase male. Era dispiaciuto di non averlo saputo prima e glielo disse. Si rammaricò di non aver condiviso niente con lui ma lo rassicurò. Sono contento comunque di conoscerti anche se dopo molto tempo. Per il resto, aveva cinque figli, scoprirne di averne sei non cambiava molto».

A restare folgorato forse fu proprio lei.

«Più che altro le mie sorelle maggiori. Loro non l'hanno presa benissimo e si sono risentite, devo dire. Però da quel giorno lui si chiama Paolo Rossi Pisu. E finalmente ha ritrovato se stesso».

In che senso.

«Era caduto in una profonda depressione dopo quella rivelazione. Aveva creduto di essere figlio di un dentista e di un industriale della Ebano Calzanetto ma era vero solo a metà. Da ragazzo voleva fare l'artistico e l'hanno iscritto al classico. Aveva scelto il Dams e si è ritrovato a studiare economia. Insomma, la sua vera natura lo spingeva in un'altra direzione. Recitazione e arti figurative. Eppure, apparentemente non si spiegava. Poi tutto divenne chiaro come d'incanto».

Quegli studi universitari sono tornati utili, però.

«Decisamente. Grazie a lui è nata Genoma film che ha prodotto Nobili bugie, la mia opera prima con papà in un cast stellare. È una casa indipendente, lontana dalle major, ma si è creata uno spazio importante».

Il ritorno di Raffaele Pisu al cinema dopo molti anni, diretto da suo figlio.

«Aveva girato Le conseguenze dell'amore di Sorrentino. Bellissimo il film. E pure lui. Una figura straordinaria di anziano. Un volto perfetto. Credevo che lo avrebbero fatto lavorare in tanti. Invece fu il nulla».

Allora lo coinvolse lei.

«In realtà, ci fu prima la festa dei suoi novant'anni, organizzata proprio da Paolo Rossi Pisu».

Perché lo chiama sempre per esteso?

«Troppi Paolo Rossi a questo mondo. C'era il calciatore. C'è l'attore».

Insomma, anche il figlio segreto è riuscito a recuperare attimi di vita con il vero padre.

«Certamente. Quello spettacolo al Duse di Bologna fu merito suo. Ha grandi capacità imprenditoriali e riempì il teatro con il tutto esaurito, nonostante fosse a pagamento».

Gioie del divismo.

«Papà mi raccontava che nei primi anni della televisione c'erano solo due canali. Chi appariva era popolarissimo. E quando la gente ti incontrava per strada voleva toccarti. Strappava perfino le cose di dosso».

Oggi chiedono un selfie.

«Per fortuna. Quando non lo vogliono più, vuol dire che è iniziato il tramonto».

Lei ha figli?

«Ho una moglie che è una santa. Fa la consulente del lavoro e si tiene più lontana possibile dal mondo dello spettacolo. Se non fosse per lei, le nostre due bambine sarebbero già al circo a un euro al mese».

Quindi, nonostante i due matrimoni e le tre compagne di papà, l'idea di famiglia è molto solida.

«Cominciando a fare l'attore ero convinto che non ne avrei mai avuta una. Faresti solo del male. Soffriresti e faresti soffrire mi dicevo».

Invece.

«A ventun anni ho avuto Rossella che oggi ne ha tredici. Poi è arrivata Isabella che ne ha otto».

Esenti dal cromosoma della recitazione

«Il gene maledetto, normalmente, colpisce i maschi di casa. Però».

Però

«Isabella, un po', mi preoccupa. La vedo incline a organizzare spettacolini. Hai visto mai che l'ha contagiata il virus farlocco».

La aiuterà, eventualmente

«Aspetto che cresca. Nel caso finisse irrimediabilmente sedotta, mi piacerebbe che imparasse a star dietro gli spettacoli. In troppi vogliono essere in primo piano. Il difficile è gestirli dietro le quinte. Di bravi attori ce ne sono centinaia, di manager capaci molti meno».

Qual è il fascino di recitare.

«Banalmente, fama e soldi. In realtà essere il supereroe che generalmente non si è».

Che cos'è il successo.

«Avere popolarità. Essere riconosciuto. Desiderato. Inseguito. Talvolta anche confuso».

Si spieghi meglio.

«Mio padre era molto amato dal pubblico. Pensi che le lettere dei suoi ammiratori arrivavano anche a Max Pisu che non è parente. Lui mi telefonava dicendomi Pensano che io sia suo figlio, te le giro. E oggi siamo diventati amici proprio grazie alla corrispondenza per papà».

Il successo si deve solo al lavoro?

«Certo che no. Avere una bella famiglia, due figlie e una moglie, è un successo. Il motore senza il quale è impossibile andare avanti. Non poter condividere con qualcuno ciò che di bello accade, non è vita».

Spesso però tutto questo ha un prezzo.

«Eccome. L'altr'anno a Cannes ho visto Leonardo Di Caprio. Eravamo nello stesso privè. Era lì da solo con il suo bicchierino, accerchiato dai bodyguard. Giuro che ho pensato ecco se gli viene voglia di attraversare la Croisette per andare a mangiarsi un gelato, non può. L'avrò fissato per venti minuti. Neanche la spesa può andare a fare. Semmai volesse».

Invece l'insuccesso, che cos'è.

«Essere soli, mi viene da dire».

Allora Di Caprio non è uomo di successo.

«Chissà se è felice Se può dividere con qualcuno le sue gioie Non giurerei che lo sia, è talmente al di là di tutto. Forse è meglio essere Antonio Pisu».

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