Lo riconosco, sono prevenuto. Capisco la fondatezza del ragionamento che Michele Brambilla ha fatto sul Giornale di ieri. Il 68, ha scritto, fu una rivoluzione dei costumi, spazzò via conformismi e ipocrisie che ingessavano la società, liberò utili pulsioni di novità. Tutto vero. Anche se come rivoluzione dei costumi il nostro 68 fu totalmente dimportazione. In Francia il maggio fiammeggiò per un grande incendio di ribellione. Avendo questa caratteristica non poteva durare a lungo, infatti presto si estinse. In Italia invece il 68 si cronicizzò, diventò burocrazia eversiva, ottenne che la scuola fosse devastata ma non abolì il valore legale dei titoli di studio, il che sarebbe stato lapprodo fisiologico duna rivolta contro i vecchi schemi. I dottori e i professori non si estinsero, anzi il loro numero singigantì (con discredito immane per gli istituti italiani), e la loro qualità si nanizzò.
Mi raccontava anni fa un professore, la vicenda duno studente darchitettura che, essendosi laureato con un esame di gruppo dedicato allimmancabile questione sociale - tipo «i senzatetto alla Bovisa» - chiese di prestare servizio civile anziché servizio militare; e fu inviato in Algeria nel quadro di aiuti al Terzo mondo. Gli algerini gli diedero un incarico che consideravano adatto alla sua preparazione, ma dopo qualche giorno larrestarono. Era impossibile, a loro avviso, che quel somaro fosse davvero un architetto. Doveva essere una spia. Ci volle del bello e del buono, con linvio di attestati, per convincerli che il nullasapente era davvero un architetto. Sessantottino.
Sì, sono prevenuto non tanto nei confronti del 68, quanto nei confronti dei suoi reduci. Che ostentano meriti combattentistici, che hanno avuto in compenso gratificazioni carrieristiche, che rievocano incessantemente lardimento dimostrato nellinfrangere regole obsolete. Quando loro si pavoneggiavano per aver dovuto affrontare, se proprio andava male, qualche svogliata carica di polizia, io battevo per motivi giornalistici i Paesi dellEst. I veri resistenti erano là, i ragazzi intrepidi erano nelle chiese e nelle piazze polacche a gridare la loro protesta contro un regime autoritario, a invocare la democrazia. Loro correvano davvero pericoli, soffrivano la galera. Ma i signorini della Statale di Milano se ne infischiavano dei coetanei oppressi, perché gli unici oppressi per i quali provassero interesse erano loro stessi.
Confesso che gli aneliti dei sessantottini mi parevano - probabilmente esageravo - una comoda sceneggiata se li paragonavo agli aneliti delle vittime di autentiche sofferenze. Sicuro è che alcuni piagnucolosi e rissosi critici del mondo in cui viviamo - risoluti a disfarlo - dimenticavano troppo facilmente dappartenere a una generazione privilegiata: che non ha conosciuto guerre, che non ha conosciuto la fame, la fame vera, che è costretta a scimmiottare i poveri comprando a carissimo prezzo jeans già sdruciti. Una presa per il sedere, nei riguardi dei poveri autentici.
Si obbietterà tuttavia che il mondo - e lItalia - sono profondamente cambiati in quarantanni. Ed è impossibile non darne meriti e colpe - secondo i punti di vista - anche al 68. Questa logica non fa una grinza. Peraltro - sarà a causa della prevenzione su cui ho insistito - ritengo che lapporto sessantottino alla svolta sia stato minore di quanto si pretende. Lurbanizzazione, la fine della famiglia patriarcale, il divorzio, laborto, lincidenza decrescente della componente rurale e tradizionale, sono processi di modernizzazione ai quali abbiamo assistito con il 68, e ai quali avremmo assistito anche senza il 68. I risultati dei referendum (o devo scrivere referenda?) sullaborto e sul divorzio hanno dimostrato che la maggioranza degli italiani era già pronta, nonostante la Chiesa, ad accettare quelle riforme.
Questo per quanto attiene alla vita degli italiani. Ma altro, si dirà, è il discorso da fare per lutopia, il sogno, limmaginazione al potere. Toni Negri esaltava il sabotaggio che «organizza lassalto al cielo. E finalmente non ci sarà più quel maledetto cielo». (Lassalto al cielo fu il titolo dun saggio che Massimo Pini pubblicò nel 1990). «I personaggi del movimento che andavano per la maggiore - testimonianza di Aldo Ricci - avevano deciso per tutti che non si studiava più, studiare era un fatto borghese e i vari nomi sacri della sociologia non contavano più nulla». Ed ecco un ricordo di Guido Viale su ciò che succedeva a Palazzo Campana, a Torino: «La commissione delle facoltà scientifiche compiva lestremo atto liberatorio nei confronti del dio-libro: lo squartamento dei libri in lettura per distribuirne un quinterno a ognuno dei membri».
Per la terza volta lo ribadisco, sono prevenuto. Ma ho la sensazione che al 68 vengano accreditati almeno in parte esiti sociali ed economici che non gli appartengono; e che tra gli osanna reducistici sia difficile far ascoltare chi afferma non verità immutabili - ci mancherebbe - ma sensazioni solide. Come la sensazione che il 68 abbia fallito ideologicamente nella scuola, dove si va - senza sufficiente convinzione - alla ricerca dun recupero di serietà. Come la sensazione che ancor più profondamente abbia fallito nelleconomia e nella società. In nessun modo ha saputo anticipare, o almeno ventilare, la rivoluzione - il termine è appropriato - in forza della quale il proletariato italiano non cè più e la classe operaia è minoranza con aspirazioni piccolo borghesi.
Doveva prenderne atto anche uno, come Gad Lerner, che del Movimento e dei movimenti è sempre stato simpatizzante, e che otto anni dopo il 1980 in cui Enrico Berlinguer arringò i lavoratori ai cancelli della Fiat di Mirafiori annotava: «Otto anni che paiono un secolo.
Mario Cervi
(4 - continua)
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