Quegli effetti speciali alla maniera di Tintoretto

La sua pittura è sempre grandiosa e teatrale E a volte con esibizioni da gran varietà

Quegli effetti speciali alla maniera di Tintoretto

Gli anni della formazione di Tintoretto, del quale a Palazzo Ducale di Venezia si celebrano i cinquecento anni dalla nascita, hanno meritato un fortunato libro di Rodolfo Pallucchini, lo studioso che più di ogni altro ha rivalutato l'artista che qualche anno prima era uscito ammaccato dai colpi dell'impertinente Roberto Longhi. Il quale, proprio a margine di una delle tante benemerite iniziative del Pallucchini (la mostra su «Cinque secoli di pittura veneta»), aveva elaborato quello scintillante e illuminante viatico che ci ha accompagnato nello studio e nella riconsiderazione di tanti artisti. Con civetteria, Longhi lo definisce «tenue»; ma, certo, «tenue» non fu nel severo giudizio sul Tintoretto. Non gli era simpatico e non gli concede nulla, bastonandolo con metodo e insistenza anche quando sembra concedergli l'onore delle armi: «È più probabile che, specialmente da noi, si ammirasse nel Tintoretto più la bravura che la fantasia; che è sempre un buon pretesto per far passare l'accademia sotto specie di furia. Mi rammento che, dopo l'altra guerra, quando, nel distendere i teloni di San Rocco, si trovarono ripiegati sui bordi, non so che pezzi di frutta e foglie, non si mancò di clamare alla natura morta e a Cézanne. Si provò a fotografarli quei pezzi e le frutta andarono a male». Difficile risalire alle ragioni di questo astio e alla oggettiva cecità di Longhi, che scrive nel 1946 e non vuole mostrarsi prevenuto: «Non perciò vorrò io negare al Tintoretto una natura geniale, colma in principio di idee bellissime per favole drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci e ombre rapidamente viranti. Egli si serviva all'uopo di un teatro di manichini su cui provare quei suoi canovacci luministici. Niente di male in questo. Il male stava nella struttura dei manichini e nel previsto meccanismo dell'azione che ne sprizzavano».

Pallucchini non lascerà passare molto tempo per contraddirlo. E dallo spunto longhiano deriverà il libro La giovinezza del Tintoretto, elaborato tra il 1943 e il 1949 e pubblicato nel 1950. Longhi non tornerà più su Tintoretto mostrando, non senza intenzione, di interessarsi meglio a Jacopo Bassano. Ma nella sua stroncatura non mancherà di entrare in contraddizione sul punto cruciale dei rapporti fra la maniera toscana e il tentativo (riuscito) di Tintoretto di uscire vivo da un conflitto mortale. Il nodo, colto da Longhi, è quello della presa di coscienza della lezione di Michelangelo con l'arrivo e la permanenza a Venezia non di un sanguigno e accondiscendente letterato come Pietro Aretino, ma di un altro aretino, severo e dogmatico, Giorgio Vasari: «escogitare un meccanismo esecutivo che accordasse in una dialettica apparente i due poli della maniera e del colore era proprio un distruggere la sostanza passionale di quelle due tendenze». Dipinti come La disputa di Gesù con i dottori del tempio, ritrovato dal miglior allievo bolognese del Longhi, Francesco Arcangeli, e oggi al museo del Duomo di Milano, fanno intendere come Tintoretto risolva il rapporto con la cultura manieristica. Nessuna soggezione nei confronti di Michelangelo e del Vasari e, semmai, l'obiettivo di assorbire Parmigianino in una pittura sciolta, umorale, come aveva già tentato Schiavone. Tintoretto è più mimetico, più etereo, e soprattutto meno «ingrippato» di Tiziano. Nel quadro milanese fa il verso, in uno spazio contratto, alla Scuola di Atene di Raffaello, con un quasi caricaturale effetto a fisarmonica; ma nessun dubbio che sia già lui, con i suoi effetti speciali, in una esibizione da gran varietà, prefigurando uno studio televisivo nella sua pittura rapida e serpentina.

Dopo questa sorprendente invenzione, che segue di poco i riquadri sagomati nel soffitto della casa di Vettor Pisani nella contrada di San Paterniano a Venezia, ispirati a Giulio Romano, il blocco del Vasari e l'ossequio alla cultura romana saranno una storia superata e anzi rigenerata in un linguaggio nuovo. Tintoretto si sbarazza molto rapidamente di questa eredità pesante. Roma, Giulio Romano e Vasari sono una febbre passeggera. E quel gusto non è affar suo. Con Tintoretto, libero da questa soggezione, la pittura a Venezia riprenderà il suo corso, deviato e rallentato proprio da Tiziano. Tintoretto non è solo: per arrivare a questo risultato si guarderà intorno, misurandosi con artisti come Bonifazio de' Pitati detto Veronese, Andrea Schiavone, Lambert Sustris.

Tintoretto non ha dubbi, e dopo il gran quadro milanese lo dimostra nei cassoni con soggetti biblici del Kunsthistorisches Museum di Vienna, confermando l'adesione del gusto di Bonifazio a una pittura più corsiva, in concorrenza con lo Schiavone. È importante questo snodo perché da qui Tintoretto uscirà autonomo e indipendente attraverso l'arcadia mitologica e biblica elaborata nel corso del quinto decennio, con un occhio attento proprio a lirici irriducibili come Bonifazio, Schiavone e Sustris, i quali hanno scelto come modello non Michelangelo, parametro ineludibile per Tiziano che non può misurarsi sotto quel livello, ma Parmigianino. Tintoretto si avvia a sciogliere tutti i nodi e a saldare tutti i debiti con gli artisti con cui si è confrontato, per arrivare al suo primo grande, autonomo capolavoro: Il miracolo dello schiavo per la Scuola Grande di San Marco. Come nei dipinti che lo precedono, l'impaginazione è grandiosa e teatrale, con l'impianto scenografico di quinte e di colonne, archi e portali, e scene che si dilatano verso profondità rarefatte. Il prediletto e sperimentato cannocchiale prospettico delle scene diventa una cortina ravvicinata per potenziare il fuoco dell'attenzione sul primo piano, giocato sulla contrapposizione dei due corpi, quello dello schiavo a terra e quello di San Marco in alto, in prospettiva. Il secondo fuoco è a destra, con gli spettatori scomposti tra lo stupore e la sorpresa, e le bellissime schiene nervose in primo piano.

Ormai Tintoretto è diventato «il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura». E qui si gioca la partita dei suoi difficili e mai più risarciti rapporti con Tiziano. Imperterrito, Tintoretto continua con il genere spericolato, e così lo ritroviamo nel Sant'Agostino risana gli sciancati della chiesa di San Michele a Vicenza, ora al Museo civico di quella città: scorci, prospettive, anatomie, in una pittura livida e quasi incompiuta, con un fondale che viene da un'illustrazione dei libri di architettura di Sebastiano Serlio, pubblicati nel 1551, ipotecando una non vincolante datazione per l'opera. Ormai l'artista ha trovato la sua cifra, che potrà allungare o contrarre a suo piacimento, avendo raggiunto, come nessuno prima, un equilibrio tra figura e spazio nella natura e nell'architettura, e molto oltre il manierismo di Tiziano, che mostra un ben diverso rapporto con lo spazio, per esempio nella fiammeggiante Annunciazione di San Domenico Maggiore a Napoli.

Tintoretto sperimenta ogni virtuosismo, alternando invenzioni più composte, come la Tentazione di Adamo ed Eva o Caino e Abele, delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, ad altre più virtuosistiche, come Venere, Vulcano e Marte, dell'Alte Pinakothek di Monaco. Arriva così a composizioni piramidali come la Presentazione della Vergine al tempio, nella chiesa della Madonna dell'Orto a Venezia. Tintoretto studia composizioni con più fantasia ed energia intellettuale di qualunque altro manierista. Lo ritroveremo, nello stesso soggetto, con un diverso punto di vista, nel dipinto della chiesa dei Crociferi, ora alle Gallerie dell'Accademia di Venezia. La sua visione è instabile, inquieta, con esiti sempre originali, come le coppie degli evangelisti per Santa Maria del Giglio, dalle imprimiture scure.

Dopo gli inverosimili accrocchi di figure, come nella Sant'Orsola e le undicimila vergini per la chiesa di San Lazzaro ai Mendicanti, o il Mosè salvato dalle acque di Francoforte, o i virtuosistici sottoinsù con le storie bibliche ora al Prado, Tintoretto sosta, con uno sguardo appagato, sulla Susanna e i vecchioni, ora a Vienna, tra i suoi capolavori assoluti. Anche qui, e con esiti inarrivabili, il rapporto tra figura e natura è bilanciatissimo, come mai in Tiziano.

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