Per quanti secoli ancora dovremo credere alla favola del Partito comunista finanziato dalla vendita delle salamelle alle feste dell’Unità? Il Pci aveva un’organizzazione con funzionari a busta paga doppia di quella della Dc e cinque volte superiore a quella del Partito socialista, aveva un quotidiano milionario, periodici di prestigio come Rinascita e Noi Donne, altre pubblicazioni minori, due case editrici, era capace di mobilitare milioni di persone, tutte attività che richiedevano un finanziamento imponente.
L’oro di Mosca, sebbene abbondante, non era certamente sufficiente a coprire la massa delle spese. Il Pci era come tutti gli altri partiti. Si aiutava non solo con le cooperative e con il monopolio dell’import-export verso l’Est, ma metteva le mani in tutti gli affari italiani in cui poteva entrare. Con la fine dell’Urss, il Pci diventato Ds si è ridimensionato ma in misura minore rispetto a tutte le altre formazioni politiche, cosa che dura tuttora con il Pd che, anche se scarso di voti, vanta una presenza sul territorio sicuramente maggiore rispetto al partito di Berlusconi. La storia dei suoi segretari - Occhetto, Veltroni, D’Alema, Fassino - che non hanno mai visto una lira è una favola che fa il paio con quella delle salamelle, favorita da una generale compiacenza della stampa e anche della magistratura, giunta a negare credibilità persino a chi confessava di aver preso tangenti come il comunista ingegner Carnevali nel processo di Milano.
Io non so per quali ragioni il signor Tavaroli abbia tirato in ballo la presunta tangente che Roberto Colaninno avrebbe pagato al Pci per l’affare Telecom, né perché un giornale come La Repubblica, sempre collocato a sinistra, abbia raccolto quelle confidenze. So però che quello Telecom è stato l’affare del secolo, che Colaninno, vendendo la Telecom appena due anni dopo, è diventato dal niente un grande imprenditore, che per favorire l’operazione di Colaninno D’Alema, allora presidente del Consiglio, si è impegnato per iscritto per immobilizzare Draghi e il più arrendevole Bernabé e impedire loro di difendere la partecipazione dello Stato nella società.
D’Alema presidente del Consiglio è uscito indenne dall’invettiva di Guido Rossi: «Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla inglese»; dall’accusa di Marco Travaglio: «Sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo, sono usciti miliardari»; dalla citazione di complicità nell’affare Unipol per la quale proprio l’altro giorno, in coincidenza con le rivelazioni di Tavaroli, Clementina Forleo è stata trasferita dal tribunale di Milano; dalla vicenda dei 50 miliardi dei suoi sodali Consorte e Sacchetti che stanno incredibilmente per riaverli nella propria disponibilità. Potrei citare altri casi ancora (la sciocca gestione della Commissione d’inchiesta sull’affare Telekom Serbia per esempio) senza riandare alla farsa delle inchieste su Occhetto e D’Alema avviate nel ’94, quando Tangentopoli aveva già spento i fuochi.
Prendo atto delle smentite piovute sulle dichiarazioni di Tavaroli e aggiungo il mio convincimento sull’onestà personale di Piero Fassino. Ma è certo che il capitolo sui finanziamenti al comunismo, nelle sue numerose versioni, è ancora tutto da scrivere. * Sottosegretario agli Esteri- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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