«Quei terribili segreti di noi cacciatori»

Nino Materi

Nostro inviato

a Pordenone

«Non so se mio figlio Ludovico - da grande - diventerà un cacciatore come me. Ho deciso di scrivere e dedicargli questo libro perché un giorno possa scegliere».
Il libro di cui parla Davide Zaninotti, 39 anni, goriziano, funzionario statale, si intitola La notte del cacciatore (Edizioni Biblioteca dell’Immagine) ed è l’atto di accusa più clamoroso che un cacciatore possa rivolgere ai suoi colleghi amanti dell’«arte venatoria». «Arte» si fa per dire, considerato che Zaninotti ha deciso di raccontare «la parte oscura della caccia, quella che non serve, quella che nessuno vuole ammettere, quella che ruba il rispetto della gente per bene alla caccia vera».
Però chiariamo subito un aspetto fondamentale: i «Rambo in abiti militari», descritti da Zaninotti, rappresentano una minoranza lontana anni luce dai signori che a caccia continuano ad andarci rispettando i dettami della migliore tradizione venatoria. Statistiche ufficiali non ce ne sono, ma i «miserabili che sparano le bestie alla testa per non rovinare col piombo la commestibilità della carne», quelli che «se ne infischiano delle leggi dello Stato e della Natura», danno corpo comunque a una percentuale allarmante su un totale di 600mila cacciatori; la maggior parte dei quali - lo ribadiamo - sono agli antipodi rispetto ai «delinquenti venatori» descritti da Zaninotti.
Capitoli di rara crudezza - quelli che illuminano la Notte del cacciatore - dove chi non è mai andato a caccia troverà ottime ragioni per continuare a non andarci, mentre chi va a caccia abitualmente potrà cogliere l’occasione per fare un esame di coscienza.
Abbiamo parlato con Zaninotti durante il tragitto che percorre periodicamente da Pordenone, dove vive, a Trieste, dove è docente di diritto della caccia ai corsi della Provincia per il conseguimento del porto d’armi; lezioni a cui Zaninotti arriva vestito di verde, la «divisa» del cacciatore rispettoso della natura, degli animali e del «galateo».
Scusi Zaninotti, lei vagheggia un cacciatore alleato dell’ambiente ma poi descrive un plotone di esaltati che si armano e vanno nei boschi come se andassero alla guerra.
«Purtoppo è così. Li considero degli autentici banditi che infangano l’immagine di quelli che interpretano la caccia nella sua accezione più nobile».
Lei è stato testimone di episodi terribili.
«Non solo testimone. Ma ci sono stati momenti della mia vita di cacciatore durante i quali anch’io ho accettato vigliaccamente comportamenti scandalosi. Allora non avevo la forza per reagire e dire “no”, adesso questa forza l’ho trovata mettendo tutto nero su bianco».
Racconti di cacciatori imbottiti di grappa, origliati al bancone di un bar. Come quello dei caprioli sulla neve...
«Storie sentite con le mie orecchie: “...e poi se sbagli e ferisci è ancora meglio, perché puoi seguire le tracce di sangue sulla neve. Non ha scampo. E quando la vedi ferita e stremata, e ti sente arrivare, cerca l’ultima disperata fuga e tira su la testa. Allora puoi sparare da lontano e spaccarle il collo”».
Tra i passaggi più toccanti, c’è quello dedicato ai cani.
«Sparare una fucilata con pallini molto piccoli, ma non per questo poco dolorosi, al cane che si allontana troppo dal padrone e non risponde al richiamo del rientro è una pratica diffusa e ritenuta da molti estremamente efficace».
Ovviamente lei sa bene che la maggioranza dei cacciatori adora il proprio cane.
«Purtroppo ho visto più cose brutte che belle, ed è ora di smetterla».
Come è ora di smetterla con i fagiani cosiddetti «pronto sparo» o «pronta morte».
«Questo fenomeno rappresenta un cancro delle riserve di caccia. Sono poveri animali d’allevamento che vengono acquistati il sabato per essere liberati sui territori di caccia lo stesso giorno. Uno scempio che dovrebbe essere proibito per legge».
Perché, allora viene praticato?
«La lobby degli allevatori di selvaggina è potentissima. L’assoluta mancanza di scrupoli di certi cacciatori fa il resto. Troppi si preoccupano solo di abbattere, pochissimi di ripopolare l’ambiente».
Qual è il motivo?
«Le associazioni venatorie si autofinanziano, ma il loro unico obiettivo sembra essere quello di sparare senza regole e controlli».
Eppure le norme ci sarebbero...
«È dal 1992 che le leggi esistono, anche se in Friuli Venezia Giulia già dal 1962 la situazione veniva attentamente monitorata sotto il profilo della tutela dell’ecosistema».
Ma il modello-Friuli rappresenta l’eccezione o la regola?
«L’eccezione. In gran parte del Paese comandano i cosiddetti “vecchi”, vale a dire una generazione di cacciatori tra i 60 e i 75 anni prepotenti e privi di cultura venatoria, perché cresciuti in un periodo in cui la caccia poteva essere praticata in modo assolutamente selvaggio».
Lei ha visto fare dai «vecchi» cose impressionanti.
«Non solo da loro, purtroppo. Una volta stavamo cacciando la lepre vicino al fiume. Il terreno era ideale, con sassi e arbusti. La situazione invece era orribile: dieci cacciatori e cinque cani in cerca di una sola lepre».
E cos’è successo?
«Quel povero animale alla fine è stato trovato ed è schizzato dal suo nascondiglio, in cerca di salvezza. Correva e scartava all’impazzata tra mille gambe di uomini armati ed esaltati che, urlando, hanno cominciato a sparare. La lepre ce l’aveva quasi fatta quando un colpo sparato da pochissimi metri l’ha letteralmente fatta esplodere. È saltata in aria come un palloncino che scoppia ed è ricaduta a terra imbottita di piombo e quasi spezzata in due. Solo un sottile lembo di pelle teneva unite le zampe posteriori al resto del corpo».
Lei parla di cacciatori «alcolizzati»; di «barbari» che, invece delle doppiette, usano fucili automatici che farebbero invidia a un killer professionista; di «criminali» che fanno agonizzare le loro prede tra atroci sofferenze. Eppure lei continua ad andare a caccia.
«Non sono un cacciatore pentito. Sono un cacciatore redento. Praticata in modo corretto, la caccia è un’attività meritoria. I veri nemici dell’ecosistema sono l’agricoltura intensiva, le speculazioni edilizie e le grandi opere di urbanizzazione».


Ma cos’è che interessa più di tutto a un cacciatore?
«Anch’io, una sera d’agosto del 2002, rivolsi questa domanda al direttore di una riserva di pianura del basso Friuli».
E cosa le rispose?
«Copà!»
Che significa?
«Uccidere».

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