Quei terroristi votati alla distruzione di Israele

Il suo nome in arabo significa «zelo» e proprio lo zelo dei propri militanti lo ha trasformato in una delle principali pedine dell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad. Ma le cinque lettere della parola Hamas sono anche l’acronimo di «Harakat al-Muqawama al-Islamiya», ovvero Movimento di resistenza islamica. Come tale e come creatura dei «Fratelli musulmani», Hamas si prefigge di dar vita ad uno Stato islamico, cancellare dalla faccia della terra Israele e consacrare la Palestina «alle generazioni musulmane fino al giorno del giudizio».
Nel nome di questi obbiettivi l’organizzazione - creata nel dicembre 1978 dallo sceicco paraplegico Ahmed Yassin - ha da sempre una doppia anima. La dirigenza politica rincorre il consenso, quella armata delle Brigate Ezzedin Al Qassam colpisce al cuore Israele. Dopo il 1991 gli attacchi terroristici diventano il principale strumento per bloccare gli accordi di pace di Oslo. Per cancellarli la dirigenza di Hamas non esita, nell’aprile 1993, a dare il via libera agli attentati kamikaze e a definirli «gli F16 della rivolta palestinese». Quella retorica scaturisce direttamente dall’articolo 9 della carta fondante del movimento secondo cui «Allah è l’ obiettivo... la jihad il cammino e la morte in nome di Allah il più dolce dei suoi desideri». L’insieme degli oltre 350 attacchi, firmati da Hamas tra il 1993 e il 2008 causa oltre 500 vittime. Dopo l’eliminazione dello sceicco Yassin ucciso da Israele nel 2004 l’organizzazione passa nelle mani del segretario generale Khaled Meshaal e s’avvicina sempre più a Teheran. L’appoggio iraniano la trasforma dopo il 2005 in un vero e proprio esercito capace di attaccare in terreno aperto gli israeliani. Nel 2006 i suoi miliziani addestrati sull’esempio di Hezbollah mettono a segno il rapimento del caporale Gilad Shalit a tutt’oggi prigioniero. Ma il 2006 è anche l’anno in cui Hamas, incurante dell’etichetta di gruppo terrorista attribuitagli da Unione Europea e Stati Uniti, vince le elezioni per il parlamento palestinese e tenta di metter fuori gioco i laici di Fatah. Hamas continua a cercare la strage di civili anche dopo il ritiro da Gaza. Da quel momento abbandona gli attacchi suicidi, ma moltiplica gli attacchi a colpi di mortaio e missili Qassam contro le città israeliane. Nell’estate del 2007 non esita a regolare i conti con i cugini di Fatah decimandoli e costringendoli alla fuga dalla Striscia.
Da allora Gaza è il prototipo, non dichiarato, dello stato islamico di Hamas e una dependance iraniana. Per sopravvivere al blocco israeliano e ai tagli degli aiuti internazionali Hamas integra i 30/50 milioni di dollari annui passatigli da Teheran tassando i tunnel che collegano Gaza al Sinai egiziano. Grazie a quell’economia sotterranea e ai proventi della sua tassazione Hamas si fa beffe di una comunità internazionale pronta a ravviare gli aiuti internazionale in cambio della sua rinuncia alla lotta armata e ai progetti di distruzione d’Israele. La sofferenza dei civili gli è del resto indispensabile per dominare Gaza e i suoi abitanti. Le organizzazioni di carità finanziate con i 70 milioni annui convogliati dalle organizzazioni fondamentaliste di tutto il mondo gli garantiscono un capillare controllo della popolazione. Un controllo agevolato dall’assedio israeliano, dall’assenza di un’economia di libero mercato e dal costante clima di guerra in cui vive la Striscia. Una guerra più letale per i civili che non per i militanti, come dimostra il bilancio dell’offensiva israeliana del gennaio 2009 quando i caduti tra la popolazione di Gaza superarono il migliaio contro i 350 morti di Hamas.

Tre settimane di sangue durante le quali miliziani privi di scrupoli usarono gli abitanti come scudi umani, si nascosero dentro scuole ed ospedali e utilizzarono ambulanze e divise infermieri per sfuggire ai rastrellamenti.

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