Quel furfante padre dei poeti «maledetti»

Esce a giorni in Italia il romanzo di Jean Teulé sulla vita dell’autore francese, ladro, briccone e ribaldo ma con il carisma della poesia

«Io sono François, il che mi pesa,/ nato a Parigi, presso Pontesa,/ e dalla corda lunga una tesa/ saprà il mio collo quanto il culo pesa», è una famosa quartina di autopresentazione di François Villon, il «povero piccolo scolaro» dell’Epitaffio del Testamento, il «Villon per fama assai noto,/ che dattero non mangia né fico,/ secco e nero come spazzatoio», che è un altro autoritratto, quello in chiusura del Lascito, di qualche anno precedente, del 1456.
A dire il vero, poco è sicuro, nella vicenda biografica di Villon, anche - o forse soprattutto - quanto dichiara, episodi e figure che sotto la sua penna miracolosa appaiono sempre diversi, deformati, metamorfici, personaggi di una lunga «odissea naturalmente senza eroe», come ha scritto Luzi «con un caso al posto di un esempio. Ma è un caso che tocca da vicino ciascun uomo». Personaggio tra i personaggi è egli stesso, mille volte rifratto nei propri versi, ladro e ribaldo ma anche «rampollo di fata», peccatore pentito che invoca la misericordia divina, di cui non dubita («Io son peccatore, lo so bene;/ ma Dio non vuole la mia morte»), scolaro che accusa la giovinezza quale stagione di inevitabili sregolatezze («che sempre scusare cuor giovine/ si deve al tempo di giovinezza»), nostalgico lodatore del tempo passato, che invita alla fraterna pietà («ché, se pietà di noi miseri avete,/ Dio vi darà più largo il suo favore»: Ballade des pendus), o corteggia una morte riparatrice di ogni errore.
Eppure è proprio sulla biografia che per molto tempo ci si è accaniti - a partire dalla piena riscoperta dell’autore dopo l’oscurità in secoli che rifiutarono il Medioevo in toto, il Cinquecento, il Seicento. Nell’Ottocento e via via verso di noi, poeti come Verlaine, Rimbaud e tanti altri di quella generazione, ne fanno il loro capostipite, il primo dei «maledetti». Con il reperimento, dal 1873 in poi, da parte di Marcel Schwob e Auguste Longnon (a cui si deve tra l’altro la prima edizione critica delle Œuvres complètes de François Villon, del 1892), di alcuni documenti giudiziari relativi ai fattacci della sua vita - trasgressioni più o meno gravi insieme a gruppi di studenti che spesso capeggiava, con il carisma della sua parola di poeta; furti anche piuttosto redditizi, come quello di cinquecento scudi d’oro al Collegio di Navarra; fino all’omicidio di un prete, pare per legittima difesa - l’iperbiografismo si scatena.
Ovvio che esistenze come questa sono una continua sfida all’indagine, pungolando quel basso sentimento voyeuristico che invita a «pescare nel torbido» - di tanti e tali torbidi, anche, essa si compone. Ma così si tende a dimenticare la profondità e la portata dell’opera - la sola cosa in realtà a contare, ciò che lo ha condotto fino a noi. Perché Villon, lo sappiamo, sa mutare ogni esperienza in materia poetica, in uno stile «fondante» nella sua ricchezza ed evocatività - fatto di trame sotterranee, di echi che si rincorrono, di un incessante riverberare e slittare della parola di significato in significato, di detto in contraddetto, con vertiginose ascese ed altrettanto vertiginosi inabissamenti in una sostanza magmatica, oscura e quasi preverbale.
Nelle sue ballate si rinnova, variamente stravolta, attraversata da un’ironia che è la sua grande arma contro i disastri della vita, ogni esperienza propria e altrui, di quel mondo in delirio nel quale si è trovato a vivere, la Parigi uscita stremata dalla guerra dei Cent’anni, una città brutale e senza Dio, e che pure in nome di Dio compie le peggiori infamie. Umanità assoluta, quella di Villon, «non del tutto folle né del tutto saggio», «rido nel pianto e sto senza sperare;/ mi dà conforto il triste disperare;/ gioisco eppur non ho piacere alcuno;/ sono potente e nulla posso fare,/ bene accolto, respinto da ciascuno»: è la Ballata del concorso di Blois, scritta su un tema proposto a vari poeti da Charles d’Orléans (fissato il primo verso: «Muoio di sete accanto alla fontana»), che in lui si colora di accenti straordinariamente personali.
Alla partenza di Villon da Blois, appunto, alla cui corte fu ospite per un periodo (il suo soggiorno si suole collocare tra la fine del 1457 e il 1460) si riferisce il brano che citiamo, tratto dal romanzo di Jean Teulé, Je, François Villon, pubblicato lo scorso anno da Julliard e in uscita in italiano a giorni (Io, François Villon, Neri Pozza, pagg. 319, euro 18, traduzione di Giuliano Corà). Teulé vi mette in scena ogni caso noto della vita di Villon, dà voce a ogni suo personaggio, attingendo ai documenti che lo riguardano e all’opera tutta con notevole scrupolo; e con una particolare insistenza su bestialità ed efferatezze di quell’epoca atroce. Ecco allora la facilità con cui si veniva accusati e giustiziati, non prima di subire torture, qui descritte in dettaglio; e uccisi secondo i metodi più fantasiosi, compresa la bollitura sulla pubblica piazza in capaci calderoni.
Nel quartiere degli studenti, attorno alla Sorbona, la rue Saint-Jacques, la Montagne Sainte-Geneviève, si svolgono molte azioni: lì dove gli scolari, e poi maîtres (Villon divenne maître dès arts) compivano le loro scorribande, forti del privilegio di dipendere - essi stessi e i professori - soltanto dal potere ecclesiastico, l’unico che potesse giudicarli in caso di reato. Gli episodi sono storici: le rivolte, le sospensioni dei corsi, l’uccisione di uno studente e il ferimento di molti durante gli scontri con la polizia il 9 maggio 1453, e gli ulteriori disordini. Teulé racconta, per bocca di Villon, le goliardate, come quella abituale di togliere tutte le insegne delle taverne e di ridistribuirle a capriccio; o l’affaire del cippo liminare detto Peto del Diavolo, spostato in altro luogo e reso oggetto di bizzarro culto.
Ci si propone per lo più un Villon che ama rivoltolarsi nel fango morale, associato alle bande di coquillards, razza di imperversanti farabutti, ai quali non sappiamo quanto il poeta fosse legato, e di cui comunque conosceva perfettamente il linguaggio segreto, il jargon-jobelin delle Ballate argotiche. Alcuni episodi vengono dilatati, secondo il gusto dell’orrido di cui abbiamo detto: così il periodo di detenzione nella paurosa prigione di Meung-sur-Loire (siamo nell’estate del 1461), alla mercé di Thibaud d’Aussigny, il «crudele e duro» vescovo d’Orléans e sua bestia nera, la cui trista figura apre il Testamento («da lui non ho che terra deserta») e la cui ombra lo attraversa tutto. Le torture che a Meung subì divengono nel romanzo scene protratte e minuziose, fino al grottesco di un Villon che compone versi appeso a testa in giù.

Ma soprattutto parla della sua sofferenza e di quanto essa gli fu maestra: «Sofferenza il mio intendimento/ incerto, come palla acuto,/ più che d’Averroè il commento/ su Aristotele m’ha dischiuso»: «travail», una delle parole-chiave per la comprensione di quest’uomo tormentatissimo e dei suoi versi.

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