Arriva a piedi scalzi,
stavolta i capelli sono color lilla, ma in fondo è sempre lui. Il mondo
di Flea, il bassista che con il cantante Anthony Kiedis è uno dei
«due strani cugini di campagna trasferiti in città» che quasi
trent’anni fa hanno fondato i Red Hot Chili Peppers, rimbalza tra gli
opposti estremi. È così folle che tempo fa suonava sul palco solo con
un calzino a coprire il pisello. E pure curioso: «Sto leggendo Anna Karenina di Tolstoj sul mio iphone, e per questo sto diventando cieco». Adesso che i Peppers hanno pubblicato il decimo album, I’m with you ,
(godibile ma non coraggioso, già primo in Gran Bretagna,
sufficientemente recensito in tutto il mondo) Michael Peter Balzary
detto Flea, quasi cinquantenne senza un filo di pancia, continua a
rimbalzare pacioso tra i suoi estremi come fa quand’è sul palco: a
scosse improvvise, quasi un pinocchio impazzito.
Scusi Flea, siete per l’ennesima volta senza il vostro chitarrista John
Frusciante (al suo posto il riservatissimo Josh Klinghoffer).
«Dopo il tour successivo a Stadium arcadium
l’alchimia nella band si era deteriorata e così ci siamo fermati per
due anni. Lui ha fatto quello che gli serviva per stare bene».
E lei?
«Io nel frattempo sono diventato padre, ho amato e sono andato all’Università».
Facoltà?
«Musica, per la precisione teoria classica. Alla South California University».
Risultato?
«Ora amo Bach. E ho imparato a conoscere le progressioni armoniche. Insomma mi si è aperto un nuovo mondo. Ora, quando ascolto le Variazioni Goldberg di Glenn Gould,
mi commuovo».
Difatti si dice che abbia composto molte nuove canzoni al pianoforte.
«Diciamo che negli ultimi tempi ho iniziato ad ascoltare musica
elettronica e africana, ma non credo che sia cambiato il mio modo di
comporre».
Il vostro marchio sonoro è ben chiaro (fin troppo). E i testi?
«Sono di Anthony, che è sempre in evoluzione».
La critica americana non li ha presi bene, anzi.
«Cito Joe Strummer dei Clash: “Che cos’è un’opinione?Un’opinione è nulla”».
Troppo facile.
«Il lavoro dei critici è criticare. Spesso con pregiudizi prevedibili » .
Molto più imprevedibile che lei sia qui ora indossando una tshirt di Thelonius Monk, un geniale improvvisatore jazz.
«Una volta ho suonato con il grande Ornette Coleman. Prima ero
terrorizzato. Ho passato tre mesi a prepararmi le canzoni. Poi, al
momento del concerto, lui è arrivato e ha deciso di suonarne altre. Ma
lo ha fatto in modo così rilassato che sono rimasto senza parole. Se
penso alla rigidità dei gruppi rock, tutti angosciati sempre dall’idea
di suonare tutto guale nota per nota...».
Lei no, sul palco è una scheggia impazzita (vedrete il a Torino il 10
dicembre e l’11 a Milano). «Eh già, io rimango un dannato hippy, penso ancora che la musica arrivi da un luogo divino».
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