Quella sinistra senza identità che cambia tinta a ogni stagione

RomaGuardavano i vip nostrani accalcati nel retropalco di San Giovanni e sorridevano, i corrispondenti stranieri non affiliati a Repubblica. Ignazio Marino con la sciarpetta viola annodata alla fighetto, Tonino Di Pietro con uno sciarpone da montanaro d’un viola scuro e quasi nero, Giovanna Melandri con la pashmina di seta in viola tenue con riflessi cremisi. Antoinette Nikolova, corrispondente di una tv bulgara, ha sorriso: «Potranno riutilizzarla ancora, perché da un po’ di tempo il viola è di moda, è fashion». Ma il vostro cronista pensava alle sciarpette, i foulard, le camiciole e le pashmine ciclicamente sfoggiate dalla bella Giovanna. Ne dovrebbe avere una collezione ormai. Anche un foulard arancione. Che forse aveva dai tempi degli orange people di Rajneesh, ma lo esibiva con felice orgoglio nella stagione del risveglio democratico in Ucraina. Ma a quanti colori ormai s’aggrappa, la sinistra nostrana? Forse troppi, sta rischiando l’esaurimento della tavolozza cromatica. E come è giunta al viola?
Che il purple sia trendy è vero, con la voglia d’America e di Democrat Party che tira da noi, Michelle Obama detta la linea anche nel colore. Ma credete che sia la first lady Usa ad aver ispirato gli organizzatori del «No-B Day»? È assai improbabile. Soprattutto perché la scelta del viola non l’hanno fatta i quattro blogger sedicenti «autonomi», «germinati spontaneamente» in Rete, bensì Tonino, che è il vero padre padrone della manifestazione di sabato così come del marchio e dello slogan: è lui che sin da aprile, cinque mesi prima che fiorisse il gruppo organizzatore «senza partito», ha tinto di viola il suo sito lanciando il «No-B Day». Tant’è che ora, il viola non è più soltanto il colore dei giustizialisti ma anche del popolo di sinistra e dei suoi illuminati dirigenti.
E pensare che cantavano Bandiera rossa la trionferà. Anzi, prima ancora venivano dal nero. La bandiera nera è stato il primo vessillo della rivoluzione proletaria, sventolava sulle barricate della Comune di Parigi nel 1870 prima di venir soffocata nel sangue. Quando anarchici e socialisti si divisero nella prima Internazionale, il nero rimase agli anarchici, i mazziniani presero il verde e i marxiani adottarono il rosso. Simbolo di lotta e di sangue anche questo, ci mancherebbe. La mitologia vuole che già Spartaco agitasse una tunica inzuppata nel sangue per sollevar gli schiavi di Roma. Tant’è che dall’Ottocento sino alla caduta del Muro di Berlino (ed oltre, in verità), rosse erano le bandiere, i garofani, le rose nel pugno, le cravatte e i fazzoletti al collo, il 1° maggio e le ricorrenze civili, dalle parate sotto il Cremlino sino ai comizi a San Giovanni, compresi i funerali di Togliatti e Berlinguer.
Han sempre avuto bisogno di un colore, a sinistra. E sarà che il rosso si faceva ormai stantio e un po’ abusato - ce l’avevano tutti, anche i socialdemocratici, pure i pompieri, persino i bagnini innalzano la bandierina rossa quando c’è burrasca - han preso a cercarne di nuovi e alternativi, che facessero dimenticare la falce e martello indissolubilmente legata al rosso. L’arcobaleno della bandiera delle pace resiste ancora, anche se ha perduto per strada la colomba bianca al centro disegnata da Picasso. Sette colori insieme, è quella classica. I nostri se li son fatti tutti, anche separati.
Dell’arancione a sostegno della rivoluzione aranzhivy ucraina nel 2004, abbiamo già accennato, quelli lottavano per avere libere elezioni e i nostri li sostenevano con fazzolettini e pashmine. Subito riposti nel cassetto quando il blu pesante di Mosca scese a rimettere ordine nella Repubblica sorella. E il rosa, dimenticate il rosa innalzato e sbandierato in difesa dell’altra metà del cielo? È stato un tripudio di fiocchi e golfini rosa, tutto aveva da essere rosa anche per i bravi maschietti di sinistra, le quote rosa, gli spazi rosa, il telefono rosa, la radio rosa, rosa di sera bel tempo si spera.
Da ultimo si sarebbero volentieri buttati sull’azzurro, se tal colore non lo avesse già monopolizzato Berlusconi. Però la voglia era così forte, che han ripiegato sul celeste appena avuta l’occasione. A dargliela son stati i calzini del giudice Mesiano. S’è aperta una cataratta celeste, eccoti Franceschini coi pedalini in tono, e dietro di lui l’intera schiera veltroniana del Pd in celeste.
Ed ora sono al viola, che per la gente di spettacolo porta maledettamente sfiga, ed anche per chi non è superstizioso è comunque un simbolo di penitenza e di mestizia. Anche in chiesa, il viola è il colore della quaresima, sta in fondo ai paramenti dopo il bianco, il rosso, il verde e l’oro, dopo il viola c’è solo il nero, che il celebrante indossa solo per i funerali.

Se volete sembrare ottimisti, dite pure che alla sinistra nostrana non resta che tornare alle origini, al nero dei comunardi. Anche se, poiché a dar la linea è Di Pietro, più che il fumo delle barricate qui s’avverte l’incenso dei funerali.

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