Quelli che piangono per i robot su Marte

Un nuovo allarme agita le coscienze buoniste: "La Nasa sta lasciando morire la sonda spedita sul pianeta rosso". Ma c’è una speranza: che faccia la fine del tamagotchi

Quelli che piangono 
per i robot su Marte

Il pulpito è autorevole: il Corriere della Sera, primo quotidiano italiano. La denuncia è coraggiosa e precisa fin dal titolone: «Phoenix, l’agonia di un robot. La Nasa lo lascia morire su Marte». Lo lascia morire, capite? Il tono del pezzo è giustamente accorato: «Il robot Phoenix su Marte è in fin di vita. A 158 giorni dallo sbarco in prossimità del Polo Nord, la sonda della Nasa sta soccombendo vittima delle tremende condizioni ambientali». Il sottinteso è evidente: che cosa si aspetta ad organizzare una spedizione da qualche centinaio di milione di dollari che vada a recuperare il povero robottino sofferente?

Benvenuti sull’ultima frontiera dell’italico buonismo: la commozione per un ammasso di metallo e microchip. In principio fu il tamagotchi. Ricordate? Erano quegli infernali ovetti di plastica che bisognava accudire come neonati altrimenti si mettevano a pigolare fastidiosamente e poi (molto poi, purtroppo) si spegnevano. Pardon: morivano. Dal Giappone gli insopportabili ninnoli invasero le nostre case: nessuna bambina poteva farne a meno, pena traumi gravissimi nel confronto con le coetanee che ne erano regolarmente provviste. Schiere di psicologi si affrettarono a spiegarci che gli insulsi giocattolini «in realtà sviluppavano il senso materno della nostra prole».

Sbagliammo allora a non opporci e aprimmo la porta a questa umanizzazione delle macchine che ora pretende la lacrima sul bullone allentato, il patema per la ruggine al gomito metallico, il dolore per l’Alzheimer del circuito elettronico. E sentimenti di gratitudine, anche: come possiamo restare indifferenti, suggerisce ancora il Corrierone, alla sorte di chi ha trovato il ghiaccio su Marte e «ci ha regalato panorami struggenti». Insensibili. «Questione di giorni o settimane», si amareggiano i tecnici della Nasa, «poi il robot non avrà più la minima energia necessaria per sopravvivere».

Dunque si provveda, si organizzi, si faccia qualcosa per impedire questa morte assurda. E qui si vede un’altra differenza tra il Corriere e noi. In via Solferino trepidano. Qui in via Negri, invece, niente: cigli asciutti, cuori di pietra, nessun senso di colpa. Figuriamoci. Noi abbiamo avanzato dubbi anche sui salvataggi in montagna. Sapete, quelle costosissime operazioni per recuperare alpinisti che si sono consapevolmente cacciati nei guai e che poi, una volta riportati sani e salvi al campo base, spiegano a quotidiani e tv che sì, loro sono saliti sull’elicottero, ma proprio per fare un piacere ai soccorritori, visto che poverini si erano dati tanto da fare. Perché in realtà, chiaro no?, loro erano perfettamente in grado di cavarsela da soli.

Ecco, non vorremmo mai che Phoenix, una volta raggiunto, recuperato e riportato sulla Terra, ci sgridasse: «Ma che cosa vi è venuto in mente: avevo appena adocchiato una marzianina...». Sapete come diventano queste macchine a furia di umanizzarle: gli date un dito e, mentre voi buoni buoni vi bevete il cervello, loro si prendono tutto il braccio.

PS: Ai tempi, ho fatto fuori almeno quattro tamagotchi.

Assassinati di notte, in gran segreto: mai stato scoperto. Spero che questa confessione mi valga un ringraziamento da parte di mia figlia. E mi auguro soprattutto che il reato sia ormai prescritto: i tribunali dei buonisti raramente sono clementi.

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