"Terroni" e "polentoni" non offendetevi

Alcuni di quei termini a cui attribuiamo una valenza ingiuriosa non costituiscono un insulto, ma sono sostantivi e aggettivi che fanno parte di un lessico popolare

"Terroni" e "polentoni" non offendetevi
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Gentile Direttore Feltri,
le parole non hanno solo uno specifico significato attribuito loro dal contesto sociale e dall'uso che ne facciamo. Hanno anche un carico di storia. Ci sono parole che nel tempo hanno attenuato l'accezione originaria o ne hanno smorzato il significato. Le parole hanno un valore, un peso, ma anche una certa flessibilità semantica. È il caso, per esempio, di «terrone» e «polentone». Due termini che tempo addietro avevano una carica offensiva indiscutibile. Oggi assai meno. Anzi, molte persone non avvertono più in quelle due parole l'ingiuria primigenia, ma le considerano lemmi che caratterizzano l'appartenenza a certe regioni italiane. Chi può stabilire se l'uso di parole e, quindi, di significati può costituire o no reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa? Credo che la risposta sia nella storia evolutiva delle parole e nel contesto sociale dove vengono scritte e/o pronunciate.

Molte cordialità
Fabio Sìcari
Stezzano (Bergamo)

Caro Fabio,
non posso che concordare con te: alcuni di quei termini a cui attribuiamo una valenza ingiuriosa non costituiscono un insulto, ma sono sostantivi e aggettivi che fanno parte di un lessico popolare e per questo efficace e affascinante, adoperare il quale non rappresenta un crimine bensì l'esercizio della libertà di espressione. La parola è espressione di democrazia.

Io sono stato processato per avere fatto ricorso in alcuni articoli e titoli al termine «terrone», ma poi sono stato puntualmente assolto in quanto il buonsenso e la razionalità del diritto prevalgono sempre sulle schizofrenie ideologiche, capaci pure di inaugurare procedimenti giudiziari o disciplinari. Perdura la condanna morale nei confronti di chi non si rassegna ai divieti semantici e conserva l'abitudine di estrinsecare il pensiero attraverso quelle parole che sono state messe all'indice.

Faccio presente però che non possiamo considerare offensive talune parole in sé, quello che conta è l'intenzione da parte di colui che le utilizza di denigrare, infangare, diffamare, istigare all'odio. È questa malevola intenzione semmai, ove sussista, a determinare la configurazione del delitto, eppure noi, superficiali come siamo diventati, guerreggiamo contro le sillabe, le declinazioni, le vocali. L'idioma è patrimonio culturale di un popolo e di una Nazione e va salvaguardato contro l'appiattimento e l'omologazione della lingua e delle coscienze. Del resto, le dittature si impongono anche mediante il controllo di quello che si può proferire e di quello che non si può proferire. A tali limiti non mi sono mai adeguato, anche a costo di rischiare la pena.

Quando mi chiamano «polentone» non mi offendo, lo sono, essendo nato e cresciuto a Bergamo, proprio come te, suppongo. Allora perché un terrone dovrebbe sentirsi insolentito se viene chiamato «terrone» e perché noi dovremmo ritenerlo insultato? Vuol dire che siamo noi a reputare denigratorio l'essere indicato quale meridionale, come se l'essere cittadino del Mezzogiorno fosse un demerito o una diminutio, qualcosa di cui vergognarsi o almeno di cui non andare fieri.

A volte, caro Fabio, l'intento offensivo non risiede nella mente di colui che si serve di un termine, ma la malafede è insita nell'animo di colui che interpreta quel termine quale improperio. E quindi si scandalizza udendolo. Se avessimo l'animo pulito, le parole non desterebbero in noi tanta riprovazione.

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