"Racconto i cent'anni della radio attraverso le passioni degli italiani"

Il regista ha realizzato un docufilm in onda su Raiuno il 6 ottobre: "La confronto con la reazione che scatenò l'arrivo della tv"

"Racconto i cent'anni della radio attraverso le passioni degli italiani"

L'idea era quella di una serie di puntate sul tema gotico. Quando Pupi Avati si presentò all'incontro con i dirigenti Rai, aveva in testa il progetto ma Roberto Sergio spense il desiderio: «Guardi, Avati, mi prepari invece un docufilm sui cent'anni della radio». L'amministratore delegato di Rai, forse a propria insaputa, aveva deciso di affidare ad un bolognese romantico la storia di uno strumento inventato da un altro geniale concittadino, Guglielmo Marconi

Pupi Avati e la radio, dunque, memorie e suggestioni

«C'era stato un musical di Garinei&Giovannini, con la compagnia di Renato Rascel, dal titolo Enrico 61, dedicato al centenario dell'Unità d'Italia. L'idea era quella di ripercorrere gli anni dall'ottobre del Ventiquattro a oggi. Ho cercato di immaginare che cosa abbiano provato gli italiani in quegli anni Venti, confrontandolo con le emozioni e le reazioni che trent'anni dopo abbiamo visto e vissuto con l'avvento della televisione, stupore, curiosità. Per me, per la mia generazione, la radio è stata quella a transistor».

Una compagna di avventure.

«Ballate con noi, era la trasmissione alle cinque del pomeriggio, la sigla si intitolava Delicado; a casa di Annalisa Santerini, la ragazza più bella di Bologna, la crème della città si ritrovava per ascoltare i dischi e ballare, pomeriggi danzanti, al buio, una prossimità sognante e soddisfacente, a quel tempo era l'unica occasione per stare vicini nel e con il corpo, cosa riservata alle coppie sposate o agli amanti, nei loro incontri notturni. Oggi vedo balli impropri, isolati, stupidi».

Con la radio nascevano i grandi amori.

«Io ero inibito. Mi occorrevano 6 o 7 Campari soda per prendere coraggio. Mi battezzarono Peppino il Camparino, una volta ne buttai giù 16, dovettero ridipingere il soffitto della mia stanza da letto. Non ho fatto il conto ma dopo quattro anni di corteggiamento e di bevute riuscii a portare in sposa quella che era la compagna di ballo».

La radio testimone di tempi terribili.

«La mia famiglia votò per la monarchia, di questo sono certo ma non ho alcuna memoria di discussioni e di propaganda durante il fascismo, mai vidi mio padre con la camicia nera o parlare di quel governo mentre io fui sì balilla, con la mia divisa da figlio della lupa, per andare a scuola. Mussolini aveva intuito che la radio sarebbe stato un esclusivo strumento di distrazione in un momento critico per il regime, il delitto Matteotti fu l'evento tragico che segnò la svolta della dittatura e le leggi relative. Ma la radio faceva propaganda e ciò che mi ha indignato oggi, da vecchio, è il silenzio assoluto su alcuni fatti».

Ad esempio?

«Le deportazioni. Ho letto vicende strazianti, l'orrore di vite stracciate. Perché la guerra era visibile, nell'urlo delle sirene, nei bombardamenti, nelle dichiarazioni pubbliche, nel grido disperato dei superstiti che piangevano per i loro morti, nella polvere e nel buio dei rifugi. Questo l'ho vissuto personalmente. Ma il resto, non rientrava nei notiziari del regime, la deportazione degli ebrei, di creature innocenti, la tragedia di famiglie, di madri, di vecchi. Molti italiani voltarono le spalle a quelle storie, fu il più grande e imperdonabile errore di Mussolini. Oggi, quest'aria malsana di antisemitismo mi spaventa molto. E tutto questo non lo provi se non ci sei dentro, la televisione e la radio non possono trasmettere la sofferenza vera di chi è vittima sul luogo del dramma o dell'addio alla propria terra, alla propria gente verso luoghi di morte».

La radio porta soltanto ricordi drammatici.

«Eravamo sfollati a Sasso Marconi. Mio nonno Carlino temeva che i tedeschi potessero requisire la sua Topolino, con mio padre decisero di seppellirla nel terreno sotto le piante di pomodori, poi coperta dalla tovaglia da tavola di tutti i giorni. Una certa Olga, figlia della proprietà della casa dove eravamo rifugiati, si faceva corteggiare dai tedeschi che erano di stanza in quei luoghi, aspettavamo che la linea Gotica venisse infine attraversata. Olga girava senza mutandine sotto la gonna ed era il nostro gioco preferito con lo specchietto a sbirciare il suo intimo. Ma lei era una spia e riferì ai tedeschi della Topolino, arrivarono con i buoi che usavano come tiro a segno e tirarono fuori l'automobile».

La guerra e poi la pace, Peppino Camparino.

«Beh, sì, i 4 moschettieri, le figurine del feroce Saladino, Rosso e Nero anche se si trattava di trasmissioni ricevute in eredità dai miei genitori e nonni. Poi la band ed il jazz, andammo a suonare a Radio Bologna, fummo presentati da Borsari, era la voce ufficiale. Conservo la fotografia di quel giorno. C'era poi una trasmissione che mi appassionava, Roma-Londra, una sfida di argomento culturale tra esperti di letteratura, spettacolo, storia».

Nulla a che fare con Radio Londra.

«No, quella fu la radio che trasmetteva le informazioni contro la propaganda nazista, le prime note della quinta di Beethoven come inizio del programma, la voce del colonnello Stevens. L'ho usata per il mio docufilm che andrà in onda su Raiuno la sera del sei ottobre».

Avati, radio e musica.

«Avevo riempito cento musicassette con la musica classica trasmessa dalla filodiffusione. Era sempre radio, non so che fine abbiano fatto e non saprei nemmeno con quale dispositivo riascoltarle. Però ho un appuntamento al quale non posso rinunciare».

Quale?

«Ogni ventisei o ventisette del mese ricevo una telefonata da Bologna, è mia sorella Mariella che mi ricorda che a sera su Radio Maria c'è il messaggio della Madonna di Medjugorje,

attraverso la voce di una veggente. Mariella è profondamente devota, quando la vedo pregare, sembra che dialoghi davvero con una persona esistente. La mia fede, invece, va e viene».

Forse basterebbero un paio di Campari soda.

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