Il pensiero di Claudio Cecchetto è chiaro e pure condivisibile: «Ormai nelle radio la musica non ha limite. Il ruolo del disc jockey è sempre più marginale. La mia è una critica sociale. Se un bravo dj non si allena non diventerà mai un grande dj». Ma il concetto espresso al Corriere della Sera è anche molto controtendenza. In tanti network di grandissima ascolto (come ad esempio Rtl 102.5 ma non solo) il «parlato» è così compresso che i poveri deejay manco riescono ad annunciare tutti gli eventuali feat. della canzone (talvolta parliamo appena di 10 secondi tra un brano e l'altro, una roba da penitenza). Sia chiaro, la logorrea non va bene. Ma neanche la sintesi notarile. È una tendenza che nel corso degli anni ha necessariamente «grillizzato» il ruolo del deejay. Spesso in onda c'è talmente poco tempo a disposizione per parlare che un deejay o l'altro che differenza fa. Insomma «uno vale uno» come recitava la regola dei Cinque Stelle e si è visto come è finita. Una scelta strategica che rischia di affossare le radio a vantaggio delle «playlist» delle piattaforme digitali, dove ciascuno può scegliersi i brani che desidera e non ha neanche l'impiccio di ascoltare qui e là una decina di secondi di asettico «parlato». Ma la radio è sempre stata altro. È stata (ed è ancora dove si può) una palestra di istrioni, una culla di rapporti sociali, un volano di linguaggi e non solo di musica. Ora, dopo un abbondante lustro trascorso a inseguire logiche social o streaming, se vuole recuperare l'identità la radio deve tornare a essere se stessa. A intrattenere. A inventare. A costruire personaggi. In radio il «parlato» è inutile quando chi parla non ha niente da dire.
Altrimenti è il valore aggiunto che in questi anni è stato spesso drammaticamente e colpevolmente trascurato. Perciò ben venga l'idea della Radio Cecchetto lanciata dal più grande dei visionari radio. Ha ricordato a tutti che il deejay è l'unico a impedire che la radio diventi senz'anima come Spotify.
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