No, 11.387 dipendenti non posson bastare. Un po’ li voglion perché sono precari. Un po’ li voglion perché ancor non san cosa vuol dir fare il redattore. Matta. Mamma Rai è proprio matta perché ha di nuovo carenza di affetto ed è pronta ad adottare figli e figliastri a tappeto, con un bando di selezione di personale giornalistico. Nonostante la crisi, i conti che si sono travestiti da contesse e lo spettro di esuberi, ricollocazione e mobilità interna.
Se ne mormorava da mesi, dall’accordo con Usigrai, e finalmente ecco comparire il bando-salvagente, in grado di convertire in contratti a termine i sussidi di disoccupazione dei precari iscritti all’Albo dei giornalisti professionisti. Precari che non hanno né colpa né peccato e meritano di avere delle chance in un mondo - quello dell’informazione - che vive un periodo di vacche anoressiche. Il nodo, semmai, è che il carrozzone di viale Mazzini è sì un ente pubblico, ma non un ente assistenziale. In soldoni, con i bilanci in rosso e il foltissimo parco-dipendenti che si ritrova, siamo sicuri che la Rai possa permettersi di dispensare contratti a cuor leggero?
È di soli tre anni fa l’approvazione di un piano aziendale che spergiurava di «razionalizzare il personale». Ma la sensazione è che la Rai di oggi somigli all’Iri, alle poste e alla scuola pubblica di ieri: una costosa valvola di sfogo del malcontento sociale e della disoccupazione del ceto medio. Troppi giornalisti a spasso? Forza, venite da mammà. Il problema è che con oltre undicimila dipendenti, 1.600 dei quali giornalisti, forse l’organico della Radio Televisione di Stato è saturo. E forse dati come quelli del bilancio 2009, con un passivo di 62 milioni di euro e un crollo delle entrate pubblicitarie di 199 milioni (quasi il 17%), suggerirebbero meno munificenza. Anche se poi, a ben vedere, di fronte ai cachet delle star i contratti a tempo determinato per i redattori da dislocare nelle sedi regionali lasciano il tempo che trovano. Un tempo di burrasca, comunque.
Al di là della contestabile campagna acquisti (aperta anche - e questo è un ritorno al passato - ai parenti dei dipendenti attuali), rimane poi sul tavolo un’altra questione. Ossia la sciatteria del bando, vero specchio del Paese. Innanzitutto per quanto riguarda l’età, poiché tra i requisiti per l’ammissione alle prove selettive c’è la «data di nascita non anteriore al 01/07/1974». Ohibò, il cronista è come lo yogurt, ha la data di scadenza. Certo, nessuno come i giornalisti sa essere acido, ma esiste un senso nel porre questo paletto o questo limite un senso non ce l’ha? In altre parole: un precario di 37 anni perché dovrebbe essere tagliato fuori? Tanto valeva imporre canoni come la taglia di reggiseno superiore alla terza o un peso non superiore agli 80 kg. Non è un’azienda per vecchi, questa Rai. Che poi in video ricompaiano puntualmente protagonisti del mesozoico allergici alla pensione, è un dettaglio. In questo giro di assunzioni le rughe e le stempiature non sono ben accette neppure se sei nato il 30 giugno del ’74.
Ma a far discutere è soprattutto un’altra discriminante, che in queste ore fa temere un caos di ricorsi al Tar: ovvero il «razzismo» anti-laziale. Già, perché alla selezione può accedere chi risiede in 18 Regioni e nelle due Province autonome di Trento e Bolzano. Esistono però poco meno di sei milioni di figli della serva esclusi: i residenti del Lazio. Il motivo è la «non recettività» della sede laziale e il fatto che chiunque venga assunto possa poi in futuro chiedere il trasferimento nella sede di residenza. Il problema è che in questo modo un laziale non può entrare in Rai nemmeno se è disposto a finire al tg regionale del Friuli.
D’altronde Mamma Rai è fatta così: tanto buona e tanto generosa, ma proprio non riesce a non combinare casini appena si muove.
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