RAYMOND CARVER Il mondo «pop» contro il nichilismo

Un «Meridiano» (con qualche mancanza) per il padre del racconto del ’900. La sua opera è un ritratto essenziale della middle-class americana

La pubblicazione di un volume dei «Meridiani» Mondadori dedicata a Raymond Carver (Tutti i racconti, pagg. LXXXVII-1350, euro 49) costituisce una felice occasione per parlare di un grande scrittore e, soprattutto, di uno scrittore straordinariamente amabile, che ha fatto dell’«essere amato su questa terra» - come scrisse nei suoi estremi, commoventi versi - il suo unico, autentico programma di vita. C’è, poi, un’altra occasione, magari un po’ meno felice, che riguarda i problemi che si pongono quando si mette mano a un libro speciale com’è un «Meridiano». Ma di questo parleremo alla fine.
Parliamo ora di Raymond Carver (1938-1988). Il volume ci offre una buona quantità di notizie sulla vita di questo scrittore e sulle circostanze, del resto assai note, nelle quali nacque, si sviluppò e si affermò la sua scrittura. Pochi scrittori nella storia sono stati identificati, anzi, si sono identificati come lui con la storia delle procedure che realizzano la messa a punto di un testo narrativo. Quando diciamo Carver diciamo creative writing, diciamo «racconto» ma anche il modo in cui il racconto si attua, diciamo la cosa ma anche il modo di farla.
Non so se questo sia un bene, anzi, direi che non lo è per niente. Carver ebbe dei maestri, e l’importanza di questi maestri si vede proprio dal fatto che lui non ha agito come loro. Viceversa, il mondo è pieno di imitatori di Carver, perché il mondo in generale è pieno di gente che, quando tu gli dici perché hai agito in un certo modo, subito pensa che agendo nello stesso modo otterrà gli stessi risultati. L’intuizione formale - che risolve sempre un problema particolare e imprevisto - si trasforma in espediente, in chiave buona per tutte le porte. Quando uno fa così, è segno che non ha nemmeno visto qual è la porta da aprire.
La curatrice del volume, l’americanista catanese Gigliola Nocera, ci ricorda giustamente l’ambito «pop» nel quale si sviluppa la narrativa carveriana. La forma del racconto breve (che ha una tradizione luminosa nella letteratura americana, basti pensare a O. Henry, a Hemingway, a Capote, alla O’Connor) combacia perfettamente col mondo che incontriamo nei suoi racconti, che è un mondo da racconto breve, appunto. Un mondo pieno di «cose», tipiche di una classe sociale, la middle-class americana, probabilmente già in declino al tempo di Carver: frigoriferi, falciatrici, aspirapolvere, canne da pesca. È il mondo che funge da bersaglio per le grandi satire degli anni Sessanta (pensiamo al primo Frank Zappa), per molta cultura underground, per l’opera corrosiva di Andy Warhol; è il mondo-pattumiera, il tipo antropologico sul quale tutte le industrie, da quella alimentare a quella delle immagini, riversa la propria merce, e di cui Don DeLillo ha dipinto il grande affresco in Underworld.
Carver, però, usa questi materiali in modo completamente diverso. Il suo non è più tempo di satira, di corrosione. I protagonisti delle sue storie e i loro oggetti, le loro «cose», entrano già sporchi nei suoi racconti. Le sue case, noi le vediamo un po’ sudicie, i muri di cartongesso anneriti, i posacenere sempre pieni di mozziconi, le bottiglie lasciate in fianco al divano. Gli aspirapolvere vengono passati male, e nei forni di cucina preferiamo non mettere l’occhio, ma siamo contenti di non dover mangiare quelle torte e quegli arrosti di tacchino.
Ma a Carver non importa di fare un affresco della società americana (ciò che non ha capito Robert Altman, un artista infinitamente più modesto di Carver, con il suo film America oggi), ma solo di usare i materiali che la sua vita gli consegna per fare qualcosa in cui quei materiali possano acquistare un senso, cioè delle opere d’arte.
In un suo magnifico frammento autobiografico che non riesco a trovare nel volume, «La stella polare», Carver ci spiega cosa significa, per un garzone di farmacia, la scoperta della letteratura, e quale destino suggerisca l’esistenza di scrittori e poeti e libri per tutta questa vita che probabilmente continuerà a procedere come procede ora.
In altre parole, io credo che se la dedizione di Carver al demone del creative writing è stata così grande e decisiva, ciò dipende dall’importanza che egli attribuisce alla scrittura come momento non di mera rappresentazione, ma di costruzione di senso. Questa questione porta Carver a sventrare la forma classica del racconto - o, meglio, a definire la natura di uno sventramento che già Hemingway e la O’Connor avevano realizzato.
L’uso di ordinare un racconto secondo un inizio, un corpo centrale e una conclusione pertiene, ad esempio, a un’idea dello scrivere come fotografia, rappresentazione, ritratto, spaccato sociale; la scrittura come sociologia: niente di più lontano da Carver. Nella pazienza (che è tempo dato, tempo sacrificato, e quindi obbedienza) che obbliga lo scrittore a togliere e ancora togliere il superfluo dal racconto, fino a che le cose cominciano a brillare nella loro realtà quotidiana ma anche indispensabile, lo scrittore realizza nell’artigianato il suo rapporto col mondo. Il senso non sta nella visione ma nel mestiere. Il mestiere insegna a vedere. Carver sperimenta l’esercizio della scrittura come momento di pura positività, e questo è il primo fattore di quella positività che colpisce il lettore carveriano, anche quando è alle prese con le sue prime opere, che sono le più acide e disperate. Sono moltissimi i momenti nei quali Carver appare come folgorato dalla pura positività delle cose. Per molto tempo ho pensato (anche il suo dottore lo pensò) che ciò dipendesse da una natura religiosa, a un sostrato cristiano.
Quello che interessa, però, è che l’origine di questa possibile religiosità sta tutta nel suo atteggiamento di scrittore cresciuto in un ambiente dove più che la religione contò la pressoché totale assenza di nichilismo, che è il grande morbo europeo, con il quale tutti noi scrittori europei siamo chiamati a fare i conti. Carver, si sa, viveva lontano da New York, che è la porta americana di tutte le correnti filosofiche europee. Non fosse che per questo - perché ci ricorda che il nichilismo non è poi così necessario per capire il mondo - dobbiamo essere tutti molto grati a Carver.
A proposito del volume, resta però un rammarico. Un «Meridiano» è un libro cui non è sufficiente essere stampato con una buona copertina, ma che richiede - per esprimerci in termini cinematografici o, meglio ancora, teatrali - una regia, un allestimento che con le sue scelte (introduzioni, note, testi da includere e da omettere) possa offrire al lettore un quadro completo dello scrittore. E, qui, le mancanze e le approssimazioni ci sono. Esistono scrittori, penso a I.B. Singer, di cui si possono senza alcun danno raccogliere in un «Meridiano» tutti i racconti. Con Carver - benché abbia scritto soprattutto racconti - la cosa è più difficile. Separare i racconti dalle poesie è un affare complicato. Non solo perché molti sono, esplicitamente, «racconti in forma di poesia», ma perché l’intreccio e il rimando delle due forme è troppo stretto, e senza le poesie rischiamo di capire meno i racconti.

Il percorso di questo scrittore è scandito in modo essenziale dall’alternarsi e dal mescolarsi di tali forme.
E nessuno scrittore più di Ray Carver ha bisogno di essere abbracciato per intero: per la stessa onestà con la quale lui trattò la propria opera, per evitare la sciatteria, come raccomandava lui.

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