Ma il regime traballa

In risposta agli avvertimenti degli Stati Uniti e dell’Onu, l’Iran prosegue «come un treno senza freni», a detta del presidente Ahmadinejad, nella sua marcia verso la nuclearizzazione. Gli fa eco il ministro della Guerra che, reagendo a un minaccioso avvertimento del vicepresidente americano Cheney, afferma che l’Iran è pronto al conflitto. Sapere cosa c’è di vero dietro questi «rumori di sciabole» è quanto mai difficile. Se Israele, che assieme all’America è il più interessato e vulnerabile fattore in questa crisi, può servire anche da posto d’osservazione privilegiato, ebbene si può dire che per il momento le notizie di un possibile prossimo intervento americano contro l’Iran non trovano eco alcuna nello Stato ebraico.
Per quanto larghe correnti - di cui fa parte il viceministro della Difesa Efraim Sneh, responsabile del dossier Iran - parlino di conseguenze apocalittiche della nuclearizzazione iraniana che deve essere assolutamente fermata, la dirigenza politica del Paese si rende conto che un attacco americano contro l’Iran potrebbe avere ricadute poco piacevoli per lo Stato ebraico. Queste possibilità sono state a lungo dibattute nelle scorse settimane giungendo, se non altro negli ambienti dell’intelligence, alla conclusione che una iniziativa bellica israeliana contro l’Iran, autonoma o in collaborazione con gli americani, sarebbe un disastro. Le ragioni che giustificano questa prudenza - e che tre giorni fa hanno fatto smentire quasi rabbiosamente da Gerusalemme e da Washington la notizia che Israele avrebbe richiesto un «corridoio aereo» attraverso l’Irak - sono numerose e differenti.
Ci sono anzitutto motivi psicologici. Oltre all’amicizia storica, risalente alla Bibbia, fra il popolo di Israele e il popolo persiano, brucia ancora agli israeliani l’effetto della collusione con la Francia e l’Inghilterra contro l’Egitto nel 1956. Anche se preparano, come doveroso e probabilmente in collaborazione con gli americani, piani di azione contro l’Iran, non vogliono certo entrare in una nuova collusione con un’America che rischia di impegolarsi in guai ancora più grandi di quelli iracheni. Ci sono poi ragioni politiche. A Gerusalemme, dove funziona da anni una ascoltata radio in lingua iraniana, si è convinti che la situazione interna di quel regime sia molto più grave di quanto le dichiarazioni bellicose del presidente Ahmadinejad facciano pensare. Un attacco americano - per non parlare di un attacco israeliano - avrebbe imprevedibili ricadute internazionali, stringerebbe il popolo iraniano, anche a malincuore, attorno al regime senza per questo impedire, anche ritardandola, la nuclearizzazione dell’intero Medio Oriente.
Ci sono infine considerazioni militari. Portavoci iraniani hanno ripetutamente affermato che persino una pressione internazionale a base di sanzioni porterebbe a reazioni di cui «gli israeliani sarebbero la prima vittima». Queste affermazioni, che lugubremente ricordano quelle di Hitler alla vigilia della Seconda guerra mondiale, preoccupano non tanto per la possibilità di una risposta missilistica iraniana, quanto su un intervento missilistico degli hezbollah libanesi e dei siriani contro Israele e forse anche contro l’Arabia Saudita e la Giordania.
Ciò detto, è chiaro che la tensione nel Medio Oriente sta crescendo di giorno in giorno. Tuttavia è difficile distinguere fra la guerra psicologica, di cui questi scambi di minacce fanno certamente parte, e una guerra vera e propria, che per il momento appare ancora lontana. Quelli che stanno maturando e molto rapidamente sono invece le condizioni, i pretesti, le provocazioni che possono portare allo scoppio di una crisi.

Questo anche tenuto conto del carattere del presidente Bush e della libertà di cui egli gode in quanto comandante in capo delle forze armate americane soprattutto in fine di un mandato che rischia di offuscare il suo posto nella storia. Questo è quello che preoccupa l’Europa ma anche la Russia e Paesi di dipendenza energetica come la Cina che in questa crisi temono di essere invischiati.

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