Chiara Cirillo
Come ogni cosa, con il passare degli anni anche la cucina siciliana è cambiata. Sfatando il luogo comune che la vuole abbondante, ricca e pesante, con due palermitani doc, trapiantati nella Capitale, scopriamo invece che «tutto dipende da chi la interpreta», come chiosa Cosimo Grassadonia meglio conosciuto come Mino, che da oltre ventanni con il suo Il Dito e La Luna ha portato un angolo di Sicilia nel cuore di San Lorenzo (via dei Sabelli 51, tel. 064940726). Dalla pasta con le sarde o con moscardini e olive nere alla caponata per arrivare allo sgombro, qui ogni cosa è preparata secondo tradizione. «Cinquanta anni fa, certo che era pesante la cucina siciliana - spiega Mino - ma oggi si è più attenti a cottura e condimenti e anche la nostra cucina si è adeguata». Dai piatti di famiglia - «quelli che preparava la nonna» - oggi la cucina di Mino è sicuramente più creativa «perché dopo ventanni si ha voglia di dare una sferzata». Ed ecco che il cambiamento generazionale risiede soprattutto nei modi di presentare i piatti, senza perder di vista la tradizione.
Tradizione che ripercorriamo assieme a Filippo La Mantia, chef certamente più trasgressivo del ristorante Trattoria (via del Pozzo delle Cornacchie 25, tel. 0668301427), che ci fa da guida sulle origini di alcuni piatti che raccontano la storia della sua terra e della creatività delle sue donne: come la caponata che «riuniva le donne di casa la domenica e nasceva tra un curtigghio e un altro (lo spettegolamento femminile, ndr)» o la zucca in agrodolce, copia del piatto ricco preparato con il fegato. «La differenza - ci spiega La Mantia - sta nella zucca, che è più a portata del contadino rispetto al fegato, che invece è un cibo di lusso».
Cè poi il «falsomagro» - già la parola ci dice tutto - che «era, ed è, un piatto che sembra scarso ma dentro è un contenitore di energie perché riempito di pangrattato, uvetta, pinoli, uova sode, mortadella e patate». O ancora, il cacio allargentiera, che altro non era che una maniera di trasformare, lallora umile caciocavallo, in un piatto ricco e profumato cuocendolo con aceto, zucchero, un goccio di olio e una acciuga salata. Anche il timballo di anellini infornati era il frutto di un duro lavoro fatto dalle donne durante la settimana. «Andando in giro per mercati di Palermo - ricorda La Mantia - le donne convincevano i salumieri a farsi regalare i rimasugli degli insaccati, quindi li univano alla salsa di pomodoro, al tritato, alle uova, alle melanzane fritte, al caciocavallo e a metà cottura, li mischiavano al condimento ricco infornandoli con della mollica tostata». Infine, tra i dolci, «sua maestà la cassata, rappresentazione suprema dellabbondanza e del genio contadino».
Lidea che abbiamo di una cucina siciliana «pesante» ancorché gustosa ci arriva probabilmente dalluso esagerato di aglio, cipolla, burro o panna. Uso che in realtà è fortemente aumentato intorno al 1700 quando «le famiglie nobili siciliane - ci spiega La Mantia - ospitarono la nobiltà francese. Da quel momento, i cuochi dOltralpe iniziarono a influenzare la nostra cucina con i loro metodi di cottura». Dalle origini ai giorni nostri. Su che cosa mangiare per una cena tipicamente siciliana entrambi gli chef sono daccordo e ci consigliano caponata e pasta con le sarde, falsomagro e panelle, caciocavallo allargentiera e per finire una bella fetta di cassata.
Oltre al sapiente lavoro di questi due maestri della cucina isolana, che vale davvero la pena provare, dei buoni piatti siciliani a Roma, preparati secondo tradizione, possiamo assaggiarli anche dalla signora Luciana del ristorante La Norma (piazza Crati 13, tel. 0686206613), famoso per le pasta con le sarde oppure a La Giarra, un piccolo ma curatissimo locale (via Nocera Umbra 20, tel.
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