La religiosità nascosta di Warhol

La mostra «Pentiti e non peccare più!» svela il lato spirituale e intimo dell’artista americano

Andy Warhol è apparso, per tutta la sua fortunatissima carriera, un artista eccentrico, trasgressivo, straordinario pierre di se stesso, in grado di trasformare in oro qualsiasi invenzione. È l’artista che ha sostituito l’arte con la riproduzione meccanica e la serialità, ma anche il ritrattista dello star system, dei divi di Hollywood, dei cantanti famosi, delle ninfe egerie delle gallerie d’arte di New York. E che dire del significato che hanno acquistato le sue bottiglie di Coca-Cola, i barattoli della zuppa Campbell ma anche i ritratti, per nulla ideologici, di Lenin e di Mao?
La mostra Andy Warhol («Pentiti e non peccare più!»), curata da Gianni Mercurio (al Chiostro del Bramante di Roma fino al 7 gennaio), ribalta l’immagine corrente di Warhol con una serie di opere di grande qualità, provenienti per lo più dal The Andy Warhol Museum di Pittsburgh, la sua città natale. Il curatore è partito da un elemento che il critico John Richardson, nell’elogio funebre di Warhol del 1° aprile 1987, aveva per la prima volta sottolineato: il suo lato spirituale, la sua religiosità cattolica, nascosta a tutti tranne che ai familiari e amici intimi. Pochi sapevano che frequentava la chiesa, pregava a casa insieme a sua madre e che accanto al letto aveva un libro di preghiere.
La sua religiosità, però, non era solo un fatto personale perché - è questa la chiave della mostra - si è riflessa sulla sua opera. Non è un caso che la storica dell’arte Jane Dagget Dillenberger abbia potuto scrivere un suggestivo saggio dal titolo L’arte religiosa di Andy Warhol. Gianni Mercurio nel catalogo edito da Skira (con scritti anche di Jean Baudrillard, Giorgio Montefoschi, Arthur C. Danto, Demetrio Paparoni, Elena Paloscia) conclude che dietro la sua maschera trasgressiva c’erano «da una parte, certamente, i tanti momenti ritirati e religiosi della vita quotidiana. Dall’altra, la sua attenzione continua verso i temi ispirati alla caducità delle cose».
La mostra romana conferma che questa nuova lettura dell’artista non è per nulla eccessiva o addirittura fuorviante, come qualcuno ha scritto. Se la religiosità dell’uomo Warhol è impossibile da negare, è difficile non accorgersi di tutta una serie di temi che rimandano al senso della vanitas vanitatum. Sono temi affrontati da Warhol fin dagli anni Sessanta con i Disaster, in cui compaiono incidenti stradali, suicidi, morti violente come quella del Presidente Kennedy, e anche con gli Electric chair, opere dedicate tutte alla sedia elettrica. Negli anni ’70 egli accentra la sua attenzione non solo sulla violenza che domina il mondo, ma anche e soprattutto sulla caducità della vita umana. Dipinge allora la serie delle Croci e i ritratti di Teschi. Perfino i ritratti e le icone delle star, a prima vista privi di qualsiasi suggestione religiosa, ci rimandano con i loro fondi oro e i colori brillanti, ad esempio nelle tante immagini di Marilyn Monroe, alle icone tardo ortodosse così care fin dall’infanzia a Warhol.
Gli anni ’80, fino alla morte, sono caratterizzati dall’insistenza di Warhol su L’ultima cena di Leonardo, riletta in maniera modernissima sul piano dell’arte, ma soprattutto colta nei suoi valori religiosi.

L’artista e l’uomo, quasi presaghi dell’imminente fine, trovano nelle tante rielaborazioni di questo soggetto una perfetta sintesi di arte e religiosità. Ma come dimenticare quel dipinto degli stessi anni, così profondamente cattolico, che è Repent and Sin No more! (Pentiti e non peccare più!) che sembra una sorta di confessione di chi sentiva la morte vicina?

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