La prima Repubblica finì per molto meno

Ve lo ricordate? Era il 31 dicembre del 2005. In attesa dei botti di capodanno alcuni onorevoli membri del centrosinistra diedero un’occhiata distratta ai quotidiani, immaginando di leggervi le solite cronache prefestive: il bilancio dell’anno appena concluso, le nuove mete delle vacanze, gli acquisti per il cenone. Anche se la mente era un po’ distratta dall’imminente veglione, quando presero tra le mani Il Giornale gli autorevoli esponenti di Ds e Margherita furono scossi. Sulla prima pagina campeggiava il sunto di una telefonata tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, il capo di Unipol. «Siamo padroni di una banca?», chiedeva trepidante il segretario della Quercia informandosi sulla scalata che le assicurazioni delle Coop stavano per lanciare. Dall’intercettazione emergevano le mosse segrete dell’Opa, ma anche le trame del gruppo dirigente del maggior partito di sinistra. Subito si alzò la cortina fumogena di ciò che resta di Botteghe oscure. Fassino e compagni gridarono al complotto. D’Alema sprezzante parlò di immondizia. In pratica, grazie anche al fiancheggiamento dei giornali amici, i Ds evitarono di render conto delle loro scorribande nel mondo bancario e delle relazioni intrattenute con Consorte: con lui al telefono ho parlato di vacanze, mentì il presidente della Quercia, e molti fecero finta di crederci.
La telefonata rivelata dal Giornale in realtà alzò il velo sulla madre di tutti i traffici diessini. Quell’intercettazione è infatti la base di tutto quello che è accaduto dopo. Il tentativo di rimuovere quattro ufficiali della Guardia di Finanza, le pressioni e le minacce che porteranno alla destituzione dello stesso comandante delle Fiamme gialle, il primo tentativo di vietare la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche.
Da quel 31 dicembre 2005 partì una campagna politica che puntò a seppellire, ma anche a minimizzare il contenuto delle conversazioni tra i vertici dei Ds e quelli di Unipol. «Nulla di penalmente rilevante», seguitarono a dire Fassino e D’Alema. «Chiacchiere tra compagni». «Innocenti richieste di informazioni». Che quelli non fossero semplici scambi di opinioni a noi è sempre stato chiaro. Che la versione minimalista fosse un’autoassoluzione che faceva perno sul porto delle nebbie milanese, ossia sull’«incapacità» della Procura lombarda di trovare prove a carico dei postcomunisti, noi non lo abbiamo mai dubitato. I bottegai oscuri contavano sul solito insabbiamento, ma stavolta una serie di fatti non sono andati per il verso giusto. Il generale Roberto Speciale si è messo di traverso e non ha trasferito gli ufficiali della Finanza che avrebbe voluto rimuovere Vincenzo Visco. La Procura, di solito molto sollecita quando si tratta di indagare sul Cavaliere, aveva fatto sapere che quelle telefonate non erano niente di che, ma il giudice Clementina Forleo, nel richiedere l’utilizzo delle intercettazioni, sostiene – pur senza nominarli - che i vertici dei Ds «non furono passivi ricettori di informazioni penalmente rilevanti» e neppure tifosi del disegno di Unipol, ma «consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata».
Il giudizio della Forleo, che è certamente un magistrato fuori dagli schemi, non è una sentenza definitiva. Un gip si può sbagliare. Tocca ai vari gradi del processo accertare i fatti ed emettere condanne o assoluzioni. Una cosa però è certa. Da oggi in poi i vertici Ds non possono più raccontare che quelle erano conversazioni prive di interesse.

Soprattutto non possono sperare che il Parlamento blocchi l’uso delle telefonate. Certo, proveranno a stoppare la Forleo e le indagini. Ma ricordino: la prima Repubblica finì quando la Camera negò l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi. Per la fine dei Ds servirebbe molto meno.

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