La resistenza della Cosa rossa: restare al governo

Dalla Finanziaria al programma: tutti i leader della Sinistra usano toni da ultimatum a Prodi. Per accontentarsi di una verifica... Gli stati generali si chiudono con l’appello di Ingrao: "Unitevi, la situazione urge!". Restano però le divisioni sul passaggio dalla federazione al partito unico

La resistenza della Cosa rossa: restare al governo

Roma - Che bella cosa è il quadro astratto. Un arcobaleno di colori, immagini edificanti come l’abbraccio fra tre generazioni del Pci che si avversarono aspramente: Pietro Ingrao, classe 1915, Armando Cossutta, 1926, Achille Occhetto, 1936. Il primo roso dai dubbi del suo essere comunista, il secondo dalle certezze, il terzo dal dissolvimento dell’Idea. E che bel verso, quello pasoliniano citato dal post-figiciotto Nichi Vendola, «il vento del futuro non cessa di ferire».
Poi c’è la realtà, cruda di ferite, quella rispettata dal socialista Riccardo Lombardi. Uno che, per dirla con lo storico Tamburrano, «dava sempre un’indicazione precisa su programmi, progetti, bisogni sociali e modelli di partito, non alludeva mai, metteva sempre avanti a tutto l’interesse collettivo e la coerenza». Sarà questo il modello della nuova «Sinistra Arcobaleno»?
L’ossimoro fattosi partito «unito e plurale» non ha sciolto l’enigma, rifugiandosi dietro enunciazioni astratte e quadri ambigui. Tipo: «Saremo ancora al governo, ma senza cedimenti» (Giordano); «La verifica servirà per rafforzarne l’azione» (Pecoraro Scanio); «Votiamo la Finanziaria ma così non va» (Mussi); «La verifica è inutile se non si rispettano gli accordi» (Diliberto). Ieri però era la giornata delle icone, «il giorno del gran tuffo per imparare a nuotare» (Bertinotti), e guai a scrostare la vernice. Parla ed emoziona quello che viene dato come un «papabile» del futuro, Vendola. Per conquistare il palco ha dovuto però lottare, scoprendo che su di lui esisteva un «veto» di Diliberto. Altro «veto» pendeva sul leader della Fiom, Rinaldini, a opera di Mussi. Alla fine, si trova il tempo per entrambi. Quando interviene Vendola, quasi per un ideale passaggio di consegne, ecco materializzarsi in sala Ingrao, convinto a intervenire e «blindato» in auto dal direttore di Liberazione, Piero Sansonetti. Il Grande vecchio smentisce in parte se stesso, perché «spera molto da questa assemblea». Ma non rinuncia al monito che gli sta a cuore: «Unitevi, unitevi! Dovete fare presto, la situazione urge!». Raccomandazione fatta propria da Mussi: «Bisogna fare di più, ma il Pd ci ha messo 12 anni, noi ci diamo 12 mesi»; da Cossutta: «La federazione non basta, bisogna andare oltre i partiti esistenti»; da Vendola: «Dobbiamo uscire da noi stessi». Si aspira al 15 per cento e a contrastare l’«egemonia del Pd», perché «sono contento di stare qui e non nel partito della Binetti» (Mussi).
Poi, riecco Diliberto: «Se invece di correre la maratona mi si chiede di arrivare subito al traguardo, è una forzatura». E sulla falce e martello: «Per ora abbiamo definito un tratto grafico e ci sono i simboli di ciascun partito. Io credo ci debba essere un nuovo simbolo che definisca chi siamo». Si torna al punto, che cosa sarà la Sinistra l’Arcobaleno? Non è neppure ancora definito che si possa presentare unita alle amministrative del 2008: «Ci lavoreremo, non possiamo sprecare questa occasione», promette Giordano. Irrompono in sala gli «anti-base Nato di Vicenza» e si beccano anche loro una bella promessa di «fare tutto per vietare i lavori» (Pecoraro). Dev’essere il giorno dei buoni proponimenti, e contagia persino Diliberto: «Abbiamo alle nostre spalle decenni di incomprensioni, scissioni e litigi. Posso garantire che ora, almeno per il mio partito, tutto questo è alle nostre spalle». Quel po’ di diffidenza non guasta, perché mentre Diliberto giura, nessuno degli altri leader in prima fila lo ascolta, continuando a discorrere. Diliberto chiuderà il discorso con il pugno chiuso e la consueta evocazione di Enrico Berlinguer: «Sarebbe stato con noi, anzi alla nostra guida».
Ma quello era il Pci, e questo dovrebbe essere altro. «Se pensiamo di fare i vecchi partiti ottocenteschi non abbiamo capito nulla, chi vuole restare comunista vada con Turigliatto», dice Pecoraro.

Claudio Grassi, capo della minoranza Prc, minaccia lotta dura per falce e martello. Partono le note di Bella ciao, e i Verdi scoprono di non saperla e volerla. Quando gli altoparlanti manderanno l’Internazionale, i militanti sono già fuori.

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