
A pensarci bene, non è che fosse un gran titolo. Riserva indiana era percepito come un termine negativo: lo spazio angusto che raccoglieva meglio: recludeva - i nativi americani sopravvissuti alle stragi dei bianchi, più costretti che protetti, destinati alla tacita estinzione. Eppure Riserva indiana, lo stimolante programma di Stefano Massini (venti minuti di riflessioni e musica, dal lunedì al venerdì alle 20,15 su Raitre) partito con dieci puntate sperimentali, ha raggiunto la terza stagione. E già si parla della quarta. Un piccolo caso di cultura «alta» coniugata alla «bassa» (o il contrario, magari?) per un successo orgogliosamente «di nicchia».
Allora Massini non è vero che «sono solo canzonette».
«No, non è vero. All'inizio l'idea di Riserva indiana è stata, l'ammetto, un azzardo. Nel '24 con Paolo Jannacci portai fuori gara a Sanremo un brano di teatro-canzone, sulle morti sul lavoro. Piacque, e la Rai mi propose di replicare la formula per l'access prime time: temi civili e sociali ispirati dalle canzoni. Per il titolo pensai al mio mantra personale. Gli amici mi prendono in giro perché non frequento la tecnologia, perché in vacanza ci vado da solo, su un faro dell'Isola del Giglio perché sono, dicono, un tipo da riserva indiana».
Un caldo studio stipato di oggetti demodè, una band di session man, un monologo su temi disparati quanto inconsueti (la paura, la fierezza, le fiabe, la casa) ispirati a canzoni dal vivo. Per ottenere cosa?
«Uno sguardo diverso sulla realtà. Come nelle riserve indiane si parla un'altra lingua, e diverso è il modo di guardare al mondo di fuori, così noi oggi che la lingua parlata è soprattutto quella dei numeri o dell'Ia - cerchiamo di usare il linguaggio dell'umanità. Fatto di racconti, poesie, musica».
Suoi ospiti sono cantautori o interpreti sofisticati: Cristicchi, Ayane, Vecchioni, Brunori Sas, Servillo. La formula intellettuale di Riserva indiana non funzionerebbe con i divi più popolari del pop o del rock?
«Ma abbiamo avuto anche Morandi. E non mi stupirebbe se i miei amici Pausini, Zero, Venditti, Rossi, mi chiedessero di partecipare. Perché spesso sono proprio i cantanti, a proporsi. Senza compenso, senza fare promozione: solo per esprimersi dal vivo, in uno spazio libero. Per questo posso permettermi anche nomi meno noti - la riserva indiana della canzone italiana - ma che poi fanno lo stesso alti ascolti: Angela Baraldi, Emma Nolde, Nayt, Mirkoeilcane... Lucio Corsi era da noi, quattro mesi prima di esplodere a Sanremo».
Con chi si è trovato più in sintonia? E chi l'ha sorpresa di più?
«Piero Pelù, Noemi e i Coma Cose hanno funzionato proprio perché la loro musica è più lontana dai miei gusti. Ma i più sorprendenti sono stati Achille Lauro, per la sua sincerità, e Big Mama, che è stata toccante».
Lei ha chiesto a Simone Cristicchi se i cantanti sono consapevoli dell'enorme potere che hanno fra le mani.
«Molti non lo sono. Le loro canzoni influenzano chi le ascolta senza che loro se ne accorgano, e senza nemmeno bisogno che l'ascoltatore sia un loro fan. Molta musica oggi non puoi evitare di subirla: non puoi entrare in un supermercato senza fare a meno d'ascoltarla. Così alla fine ti entra in testa. Come fosse un link su cui sei spronato a cliccare. Oggi le canzoni hanno lo stesso potere che, come racconta Dante, ebbe il libro galeotto su cui leggevano Paolo e Francesca. Bastò loro leggerlo, per sentire il desiderio di baciarsi».
E i suoi monologhi? Nascono in accordo con i cantanti, dai temi delle loro canzoni, o è lei a proporli loro?
«Un po' entrambe le cose. Con questi monologhi vorrei praticare una forma di ecologia narrativa. I reality hanno imposto l'idea che in tv qualunque storia sia degna di essere raccontata. Non è così. Al contrario: il 99,9 per cento delle storie dei reality sono ininteressanti. Per non dire nocive».
Riserva Indiana le somiglia, insomma. Non ha un preciso tema portante, un'identità esattamente definibile.
«È così. Nelle librerie non sanno mai in quali scaffali mettere i miei libri. Massini è un narratore? O un performer? Un romanziere, un drammaturgo, un saggista? E oggi cos'è? Un presentatore? Quando Luca Ronconi rappresentò il mio Lehman Trilogy, e per questo, dopo la sua morte, mi proposero di succedergli al Piccolo, io scappai a gambe levate. Io voglio essere uno che riparte sempre da zero. E sempre in terre inesplorate. Ricordo cosa mi disse Umberto Eco, quando mi affidò la versione teatrale de Il nome della rosa: Cercano tutti di incasellarmi, senza sapere come. E se li vedo scervellarsi, vuol dire che ce l'ho fatta».
Non teme però che, come le vere riserve indiane, anche la sua sia un luogo per pochi sopravvissuti, tagliati fuori, tutto sommato, dal mondo reale?
«È un programma di nicchia, certo.
Ma il suo successo mi dice che ci sono in Italia molti che frequentano le mostre, le presentazioni dei libri, i cinema, i teatri. Hanno opinioni, gusti, posizioni politiche anche molto diverse fra loro. Ma sono uniti dalla passione. Dalla curiosità. Eccoli, gli spettatori di Riserva indiana».
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