L’8 marzo in tutto il mondo è il giorno dedicato alla donna. Per ricordare 129 operaie di New York che, nel 1908, mentre stavano protestando per le inumane condizioni di lavoro cui erano costrette, furono arse dal fuoco sviluppatosi nella fabbrica; priva di uscite, perché bloccate per punizione dai proprietari. Dunque, un episodio molto triste da rievocare. Dovrebbe essere, pertanto, l’otto marzo, una celebrazione alla memoria. Più che una «festa».
A cento anni di distanza, le donne, invece, credono di onorare la sventura di quelle autentiche martiri della violenza, occupando a frotte pizzerie e discoteche e pretendendo, in omaggio dovuto, tralci di mimosa; insomma sfruttando, per quel giorno, il solo fatto di essere femmine. Addirittura, le retroguardie facinorose colgono l’occasione per protestare. Ma contro chi o che cosa? «Padroni», se non cercati per interesse singolo, non ce ne sono più. Le condizioni di lavoro inumane sono sparite, grazie allo statuto dei lavoratori e alla miriade di conseguenti leggi successive: oggi il garantismo sindacale ha distribuito a entrambi i sessi ciò che le povere operaie morte neppure osavano pensare. Anche degli uomini non ci si può lamentare, dal momento che le leggi degli ultimi quarant’anni hanno eliminato qualsiasi discriminazione sessista: se qualcosa non funziona è, quindi, ignoranza o sciatteria aspettare l’otto marzo per rivelarla o rivendicarla. Per di più i diritti individuali e collettivi sono oggi oggetto del sapere di chiunque, molto più assimilato dei concetti di dovere e responsabilità. Dunque, deve apparire inopportuna e sgradevole la «festa» così come intesa; e grottesche e ingrate coloro che con tale spirito vi partecipano.
Per non dire della squallida ironia di alcuni maschi, complici di questo festival del nulla. Tutt’al più può avere un senso rievocare le vittime dell’odioso abuso padronale, informando oggi, a cent’anni di distanza, quelle donne che ancora sono vittime della violenza; di ogni genere di violenza. Un rametto di mimosa, non basta però a segnalare che la maggior parte delle aggressioni non viene denunciata, e un’altra consistente parte non è adeguatamente sanzionata. L’Istat evidenzia che almeno 6 milioni e 743mila donne (il 10% dell’intera popolazione italiana) tra i 16 e i 70 anni, almeno una volta nella vita hanno subito violenza. Troppe. Altre, sono incapaci persino di riconoscerla, la sopraffazione: accettano ogni giorno la crudeltà altrui, nell’illusione di essere considerate e, persino, «amate».
La spietatezza con cui si manifesta la violenza, si esprime in molteplici forme: dal sarcasmo alle intimidazioni, con critiche, minacce, ricatti, menzogne e tradimenti che, progressivamente accettati, generano assuefazione al male e dipendenza psicologica dal carnefice. Anche la violenza fisica ha nell’accettazione la forza della capacità di accrescersi: dalla parolaccia all’urlo, lo schiaffo, il pugno, fino allo strattonamento e poi lo spintone con frattura, sempre che non si muoia sotto i colpi dell’«amato». Ma è vittima della violenza anche chi subisce il potere economico arbitrario, schiavizzandosi al soldo centellinato. E pure chi non reagisce alla microcrudeltà delle molestie assillanti e della sistematica persecuzione. È sacrosanto perseguire e punire tutti i violenti, uomini o donne che siano.
Tuttavia le donne fanno poco (anzi, alcune remano contro) per reprimere e prevenire questa patologia umana e sociale. Eppure sono loro le vittime più numerose. Per esempio: quante donne prendono posizione contro l’uso scriteriato che si fa del corpo femminile sui media, nella moda e in pubblicità? È, questa, una forma di violenza sottile ma potente, che dilaga nella società e ne devasta il pensiero. Il corpo nudo in contesti inadeguati, con accostamenti strumentali e spesso sordidi, ferisce a morte la dignità femminile. E le donne si prestano a essere oggetti, a uso del prodotto e dello sguardo di qualunque maschio: ciò fanno, e accettano, esponendo sorrisi alienati e corpi mortificati dalla gratuita nudità, magrezza, plastificata possenza o perenne artefatta gioventù. Queste donne, vendendo la loro identità agli occhi non sempre angelici dell’uomo, finiscono per esercitare violenza anche su se stesse.
Ma l’otto marzo prenotano il ristorante con le amiche: spensierate, diligenti e garrule. Questa è la realtà, triste e contraddittoria, che offende gravemente la memoria delle povere operaie americane. Alle vittime innocenti e silenziose della violenza, bisognerebbe dire che la loro sacrificale sofferenza non le nobilita, né aiuta nessuno. Anzi, nutre la cattiveria dell’aggressore.
Alle altre, si potrebbe cercare di spiegare il dovere di tutelare la propria dignità; prima ancora di rivendicare che gli altri la rispettino. Sempre che capiscano di che cosa stiamo parlando... In tutti i casi, tuttavia, se proprio se ne deve discutere l’otto marzo, non c’è niente da festeggiare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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