Il ribelle affiliato ad Al Qaida «Entro in Italia coi clandestini»

Tripoli«Temo di andare in Italia. È sicuro?» chiede al cellulare un ribelle che secondo il ministero dell’Interno libico sarebbe legato ad Al Qaida. L’uomo in fuga è scappato da Zawia, la spina nel fianco di Gheddafi, 45 chilometri a sud ovest di Tripoli, riconquistata dai governativi a metà marzo, dopo feroci combattimenti. Il suo interlocutore, un comandante dell’ala estremista degli insorti garantisce: «Sì, adesso è sicuro, la situazione in Italia è migliorata per noi». Grazie a quest’assicurazione il ribelle in fuga si imbarca con un gruppo di clandestini partito da Zuwarah e diretto a Lampedusa.
La telefonata è stata intercettata una decina di giorni fa e confermerebbe i timori espressi dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni, «sul rischio di infiltrazioni di Al Qaida» nella crisi libica.
A rivelare a Il Giornale l’intercettazione che riguarda l’Italia è Moftah H., chiamato con deferenza colonnello. Un incallito fumatore con gli occhi a fessura e lo sguardo di ghiaccio, che guida la famigerata centrale di interrogatori di Tripoli, dove rinchiudono i sospetti terroristi. Le informazioni del colonnello vanno prese con le pinze, ma il suo dossier «L’organizzazione di Al Qaida in Libia» è voluminoso. Negli ultimi anni proprio Seif el Islam, il figlio di Gheddafi, aveva insistito per far rilasciare 705 affiliati al Gruppo islamico combattente libico e ai Fratelli musulmani accusati di terrorismo. Fra questi Abdel Hakim al Hasidi conosciuto come l’emiro di Derna, che ai tempi della guerra in Irak reclutò 25 volontari spediti a Bagdad. Oggi è un comandante dei ribelli e ammette, che alcuni di questi veterani combattono contro Gheddafi.
Gli stessi americani avevano scoperto che almeno 700 libici, provenienti soprattutto dalla Cirenaica, erano arrivati in Irak. E il regime di Gheddafi li aveva pure aiutati.
Secondo la sicurezza di Tripoli proprio a Brega, conteso centro petrolifero con investimenti italiani, sarebbe stato ucciso Abdul Atif al Tarouni, un ex volontario libico della guerra in Afghanistan. Sempre a Derna, roccaforte dei ribelli, Ibrahim Sufyan Bin Qumu, ex autista di Osama bin Laden, sta addestrando i giovani ribelli. Nel 2001 era stato catturato in Afghanistan e rinchiuso per sei anni a Guantanamo. Sul fronte della Cirenaica sarebbero almeno 300 gli estremisti islamici fra le fila dei ribelli.
Il dossier su Al Qaida denuncia che nella Libia occidentale, quasi completamente sotto controllo di Gheddafi, il referente dei terroristi è Abu Obeidi. Un pezzo grosso della guerra santa che emette fatwe dall’Egitto. Durante una conversazione intercettata il 22 febbraio Taher Husein Taher al Khadhrawy, «propulsore dell’ideologia estremista salafita che ha combattuto a Zawia», chiede lumi ad Obeidi sulla sorte dei prigionieri catturati. La risposta è senza appello: «Giustiziateli con un colpo di pistola in testa».
Un altro capo cellula della guerra santa internazionale è Murad Musa Salim Zakry, nella zona sud occidentale di Nalut. Specializzato in contrabbando, è stato intercettato la scorsa settimana, mentre parlava «dell’arrivo di addestratori dall’Algeria». Il sospetto è che si tratti di veterani di Al Qaida nel Maghreb. Secondo il presidente del Ciad, Idriss Deby Itno, la costola di Bin Laden nel nord Africa, avrebbe già «acquistato armi, compresi missili terra aria, depredati dai ribelli negli arsenali libici».
A Zintan, nella Tripolitania, non demordono altri comandanti jihadisti, come Moftah Mohammad al Alim Giulghum, che secondo il dossier di Tripoli avrebbe catturato «100 africani che tornavano ai loro paesi d’origine accusandoli di essere mercenari, per costringerli ad arruolarsi nelle bande ribelli».
Il colonnello della sicurezza interna, che da anni si occupa di Al Qaida, spiega: «Dopo la sconfitta del Gruppo islamico combattente in Libia nel 1996, molti sono fuggiti in Europa».

La loro base principale è sempre stata l’Inghilterra, ma in collaborazione con i Fratelli musulmani hanno trovato rifugio pure in Olanda, Canada, Stati Uniti, Australia e soprattutto Svizzera. Non a caso da Ginevra il 17 febbraio è partito l’appello via internet che ha innescato la rivolta in Libia.
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