La Rice insiste: stop alle armi in 7 giorni

Marcello Foa

Condoleezza Rice ne è sicura: basta una settimana per giungere alla pace in Libano. Nonostante la strage di Cana, nonostante l’avanzata di terra delle truppe israeliane. Anzi, forse proprio grazie all’occupazione iniziata la scorsa notte. Il segretario di Stato Usa non può ammetterlo esplicitamente, ma analizzando le sue dichiarazioni delle ultime 48 ore appare chiaro che Washington ha perso ogni speranza di costringere gli Hezbollah alla resa e che pertanto il problema potrà essere risolto quando le milizie verranno state neutralizzate.
Una settimana, dunque. La scaletta prevista dall’Amministrazione Bush è la seguente: nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, proclamazione del cessate il fuoco che i guerriglieri, ormai sconfitti, saranno costretti ad accettare, invio di una Forza internazionale di pace.
Sulla carta tutto fila e ieri la Rice ha ribadito il suo ottimismo: «Vedo emergere un consenso per porre fine al conflitto» ha dichiarato dopo aver parlato con Bush. Ma andrà davvero così? All’Onu molti ne dubitano. Ieri il segretario generale Kofi Annan ha ricevuto informalmente gli ambasciatori dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia). La discussione, dedicata alla situazione libanese, è stata «franca» un aggettivo che, nel gergo diplomatico, significa profondo dissenso. E infatti la frattura che divide gli Usa dagli alleati non è stata ricomposta: gli europei e lo stesso Annan vogliono una tregua immediata, Washington esige che sia vincolata a un piano per giungere a una pace durevole. La riunione formale del Consiglio è prevista per domani, ma è verosimile che si protragga fino a venerdì o addirittura a domenica.
Di certo i grandi riuniti alle Nazioni Unite non potranno ignorare le pretese di Israele. Ieri il primo ministro Olmert, in un colloquio telefonico con il premier britannico Blair, ha ribadito il suo sì alla forza di Pace ma a condizione che venga schierata, oltre che nel Sud del Libano, anche al confine con la Siria, per impedire che i finanziamenti e le forniture militari di Teheran e di Damasco giungano ai guerriglieri sciiti. E ha avvertito che proclamerà il cessate il fuoco solo dopo lo spiegamento del contingente internazionale.
Linea dura, dunque, anche se in realtà dietro le quinte si continua a trattare. Nei giorni scorsi, prima della strage di Cana, il ministero degli Esteri di Gerusalemme aveva lasciato intendere di essere pronto a una scambio di prigionieri. Ora, secondo indiscrezioni pubblicate dal quotidiano Haaretz, Olmert sarebbe disposto a rilasciare un libanese condannato per possesso d’armi e uno straniero clandestino in cambio dei due militari israeliani rapiti dagli Hezbollah lo scorso 12 luglio.


Forse sono questi i segnali che inducono all’ottimismo l’Amministrazione Usa, che ieri ha trovato una sponda inattesa nell’ex presidente Carter. Il Premio Nobel per la Pace ritiene, al pari di Bush, che una tregua in questo momento equivarrebbe a un cerotto, destinato a portare sollievo ma non a risolvere una crisi che ha radici ben più profonde.

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