Ricerca e mega-università per rilanciare le imprese

L’economista Zingales: «Lo sviluppo non è solo una questione finanziaria»

Ricerca e mega-università per rilanciare le imprese

Marcello Zacché

nostro inviato a Cernobbio

Per Luigi Zingales il problema della crescita delle imprese italiane parte da lontano e c'è una sola strada da battere: «Se vogliamo più innovazione dobbiamo avere università più serie». E pure «aziende che investono in ricerca». E non si tratta di un’enunciazione di principio. L'economista italiano che da oltre dieci anni insegna finanza alla Graduate school of business di Chicago, nel suo intervento di ieri al convegno Ambrosetti di Cernobbio ha citato uno studio dell'università di Harvard sull'effetto dei finanziamenti alle società in «via di sviluppo».
«Il problema della crescita e dello sviluppo delle tecnologie - ha spiegato al Giornale - non è una questione semplicemente finanziaria. La Finanza non risolve meccanicamente i problemi». I ricercatori di Harvard hanno studiato l'effetto di finanziamenti a pioggia su decine di imprese Usa particolarmente interessanti per i loro progetti tecnologici, andando a verificare i risultati cinque anni dopo, e confrontandole con altre aziende che invece non avevano ricevuto finanziamenti speciali per lo sviluppo. Ebbene, il risultato è stato che «in media quelle che sono state finanziate sono cresciute effettivamente molto di più. Ma solo in alcune zone quali Massachusetts, California, Texas, cioè solo là dove esiste una forte ricerca di base (università specializzate nella ricerca economica e scientifica, ndr) e dove, per questo, si concentrano i venture capitalist».
La ricetta, per l'Italia, sarebbe quella di avere «poche e scelte università di eccellenza. Inutile pensare di averne troppe, come sono oggi, perché non ce le possiamo permettere». Mentre intorno ai superatenei si può costruire un clima ideale per lo la ricerca e per l'impresa. Al dibattito (a porte chiuse) sul finanziamento delle imprese che innovano, moderato dall'ex consulente di Bush e professore di Princeton, Harvey S. Rosen, ha partecipato anche Massimo Capuano, amministratore delegato della Borsa italiana, che ha messo l'accento sull'importanza di un efficiente mercato dei capitali. Capuano ha ricordato agli ospiti del convegno il numero delle poche società quotate in Italia (275, superate recentemente anche da Atene, che ne conta ora 302), svelando che secondo i dati più recenti in possesso della Borsa italiana le società quotabili sarebbero ben 2.200, con un fatturato di oltre 300 miliardi. Un numero che sarebbe lievitato in questi ultimi due anni (in precedenza Capuano aveva sempre parlato di 1.200 quotabili) sia in seguito al lancio del mercato Expandi (per aziende da 25 a 50 milioni di fatturato, che ne potrebbe attirare da solo più di 500), sia per la maggiore disponibilità di conti societari consolidati da parte della Centrale dei bilanci.
In ogni caso, ha sottolineato Capuano ai suoi interlocutori, sono le Pmi l'anello debole della Borsa italiana, essendo questa la categoria di imprese meno presente anche in rapporto agli altri listini europei. Ma ci vogliono incentivi adatti, da studiare.

Quali, per esempio, dei fondi d'investimento specializzati nelle Pmi. E riforme fiscali ad hoc: in modo per che per la società si riduca il vantaggio del debito rispetto all'equity, e in modo da non penalizzare i redditi da capitale.

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