La meritocrazia nei concorsi per ricercatori universitari è ancora lontana. A quasi un anno dall’attacco della Gelmini alla concorsopoli italiana, l’aria che si respira nei corridoi di molte facoltà è più o meno la stessa, nonostante una nuova legge (1/2009) emanata proprio per impedire che in cattedra salgano ancora figli, nipoti, amanti, parenti o semplici simpatizzanti dei baroni. La riforma che ha fatto scendere in piazza gli studenti dell’«Onda» è già fallita? Semmai deve ancora entrare veramente in vigore, complici anche i ritardi del ministero nel portare a completamento le nuove regole. Perché se è vero che la legge c’è, mancano ancora le direttive operative su come gestire in pratica i concorsi. E in questo limbo normativo l’inventiva dimostrata da rettori e consigli di facoltà per aggirare lo spirito della riforma Gelmini - in cattedra ci va chi lo merita - è strabiliante.
Il nuovo meccanismo, varato l’11 novembre dell’anno scorso, prevede che in sede di concorso i ricercatori siano valutati solo sulla base del curriculum e della produzione scientifica: tanto hai lavorato (pubblicazioni, ore di docenza ecc.) tanti punti acquisisci in graduatoria; eliminati gli esami scritti e orali che permettevano alle cordate di professori di far avanzare i propri protetti, dando voti alti e insindacabili alle performance di chi era già deciso dovesse ottenere il posto e stroncando con valutazioni basse chi il posto doveva cederlo. In barba alla meritocrazia. In linea teorica la riforma Gelmini introduce un sistema inattaccabile: ma i consigli di facoltà hanno controbattuto con un colpo di genio. Quando un ricercatore deve presentare le sue credenziali - avranno pensato - dovrà pur dire qualcosa, no? Non può mica entrare con un plico di fogli sottobraccio e depositarli freddamente su banco della commissione! E allora in molti atenei hanno deciso di dare una valutazione alla illustrazione dei titoli davanti alla commissione. Ecco qui il ritorno di ciò che non se ne è mai andato. Bandito come «esame orale», rientrato sotto le spoglie di «prova orale», il principio è sempre quello: uno strumento in mano alle commissioni per assumere chi vogliono.
Non è finita: seppur geniale nella sua ideazione, la «prova orale» può non essere sufficiente a mantenere in piedi il sistema di clientela. Può sempre verificarsi il caso che il candidato «giusto» sia un fannullone con tre pubblicazioni all’attivo, mentre il candidato «sbagliato» ne abbia alle spalle più di cento. Come fare? Basta mettere un tetto massimo (e non minimo, come logica vorrebbe) alle pubblicazioni ammissibili. E qui c’è l’addio definitivo alla meritocrazia. A che serve più aver pubblicato decine e decine di ricerche se alla fine se ne possono presentare al massimo cinque? L’espediente, paradossale ma non illegale (come invece è il trucco delle «prove orali») è reso possibile dal fatto che la riforma Gelmini non ha cancellato la vecchia legge Berlinguer, che concedeva alle commissioni di porre un tetto massimo alle pubblicazioni presentabili per non oberare di lavoro le commissioni stesse. Ma il fatto che all’epoca le commissioni dovessero anche valutare esami scritti e orali non è stato considerato.
A dare le dimensioni del fenomeno ci ha pensato nei giorni scorsi Il Sole 24Ore, che ha pubblicato una ricerca dell’associazione dei precari della ricerca italiani (Apri): nell’era post-Gelmini sono stati banditi in tutto 170 posti. Un numero molto basso, considerando soprattutto che per il triennio 2007/2010 il governo ha varato un piano di incentivi da 140 milioni per cofinanziare oltre 4mila posti di ricercatore (e se i concorsi non saranno banditi questi soldi torneranno nella mani del ministero dell’Economia). Nel bandire questi posti il 52% degli atenei non ha rispettato le nuove regole (inserendo i «colloqui orali» o addirittura esami scritti) e il 38% dai bandi prevedeva un tetto massimo alle pubblicazioni presentabili. Un tetto del resto molto basso: a Palermo massimo cinque, a Varese quattro e a Sassari e al politecnico di Milano addirittura tre.
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