Per ricordare i morti in Irak basta riscoprire il 4 novembre

Federico Guiglia

Se non avessero abolito la festività del 4 novembre nei gloriosi anni della consociazione fra Dc e Pci, oggi il governo non avrebbe avuto alibi sulla mancata «cerimonia nazionale» per i caduti di Nassirya. Quei diciannove e sfortunati valorosi - dodici carabinieri, cinque militari e due civili - sarebbero stati ricordati in modo naturale e nell’anniversario naturale: nel giorno un tempo di festa che la tradizione dedicava all’unità nazionale e alle Forze Armate. Altro che celebrazioni separate e domenicali fra Roma e Bologna, e divise perfino tra maggioranza e opposizione, com’è invece e nuovamente avvenuto; quasi che il sacrificio dei soldati italiani in Irak o in altre delle ormai tante zone del mondo in cui essi sono impegnati a costo della vita, fosse una lotteria di stagione e di sentimenti: una volta si commemora qua, un’altra di là e sempre guardando all’evento a seconda della parte di cui si è parte. Se poi nella propria fazione pesa il radicalismo dei «senza se e senza ma», allora meglio fare le cose sottovoce e un po’ defilate. Come se a qualificare l’atto d’eroismo fosse non chi lo compie e come lo compie, ma chi lo giudica col paraocchi da lontano. L’opinione non solo a dispetto del fatto, ma che stravolge il fatto, che lo «interpreta» al punto tale da prosciugarne ogni parvenza di verità. E quindi meritevole d’essere archiviato senza troppe fanfare.
Ma applicare alla memoria la logica dei due pesi e delle due misure, è il modo più sicuro per vivere un futuro da separati in patria. E se una volta all’anno esistesse anche l’obbligo in calendario - come esisteva ed è esistito per sessant’anni - di chiudere le scuole e sospendere il lavoro durante una giornata per ricordare l’unità nazionale, sarebbe più semplice anche capire e far capire il ruolo moderno dei «militari di pace». A maggior ragione dopo l’eliminazione della leva di massa, eliminazione che ha reso volontario questo servizio alla nazione; e perciò sarebbe giusto essere riconoscenti a chi lo sceglie sapendo quel che rischia, ma pure poter tirare le somme e giudicare in modo pubblico e trasparente quel che l’esercito italiano ha fatto nell’anno e anno per anno.
Del resto, il soppresso anniversario del 4 novembre era la migliore testimonianza di quanto le tradizioni siano capaci di camminare nella modernità. Nato come «giornata della Vittoria» per ricordare la fine della prima e per l’Italia appunto «vittoriosa» guerra mondiale, col tempo l’anniversario fu trasformato nella festa dell’unità nazionale. E così finiva per unire il senso patriottico della storia, che il 4 novembre 1918 coronava il sogno dell’indipendenza nazionale, col significato civico del presente nel quale potersi tutti identificare come italiani. Ma la festa è stata retrocessa a giornata di pure, occasionali e ristrette cerimonie militari. Le hanno tolto proprio quel carattere popolare e di condivisione sociale che aveva. E che potrebbe soprattutto riacquistare, se il 4 novembre fosse ulteriormente «aggiornato», per così dire, al compito internazionale svolto dalle Forze armate nazionali. E dunque anche al ricordo di Nassirya e dei molti caduti nelle decine e decine di operazioni militari di pace dall’eccidio di Kindu (1961) in avanti.

Come il Parlamento ha restituito la festa del 2 giugno - anch’essa era stata improvvidamente cancellata - così dovrebbe rimettere il 4 novembre. Altrimenti resteremo l’unico Paese al mondo che non festeggia il suo compleanno di unità nazionale.
f.guiglia@tiscali.it

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