No, il dibattito sulla egemonia culturale, no. Invece sì. Se la salute di un Paese si misura da quella della sua cultura, possiamo rassegnarci all'estinzione. Alcuni decenni di egemonia culturale della sinistra, mentre cattolici e liberali si rassegnavano, ci hanno portato dove siamo: a un punto (quasi) morto. La rivoluzione è stata archiviata a vantaggio di una improvvida adesione al peggior capitalismo mai visto, quello delle immense concentrazioni e del traffico di dati come reale fonte di qualsiasi guadagno. Tra l'altro, questo è ancora capitalismo? Sono in molti a credere che il capitalismo, fondato sulla concorrenza nel libero mercato, sia una cosa ottocentesca, spazzata via dalla globalizzazione e dalle crisi di sistema.
A dire il vero, è sempre esistito l'antidoto ai fuochi di paglia dei decenni in cui sembrava (sottolineiamo: sembrava) che solo la sinistra, quella allineata al Pci o quella a sinistra del Pci, producesse cultura. Non ci credete? Basta sfogliare, ad esempio, il volume collettivo (c'è anche lo scrivente tra i molti) I profeti inascoltati del Novecento con disegni di Dionisio di Francescantonio, prefazione di Vittorio Sgarbi, editore Italia Storica, per trovare un elenco per difetto di scrittori, artisti, filosofi, registi che avevano indicato la retta via. Senza distinzione politica, erano di destra come di sinistra. Pier Paolo Pasolini ci ha messo in guardia sull'omologazione da consumismo e sulla schiavitù da acquisto. Oriana Fallaci ci ha offerto un ripasso dei fondamentali su cui dovrebbe basarsi una società libera, e ha cercato di far vivere in noi l'orgoglio per quello che eravamo e non vogliamo più essere. Giuseppe Prezzolini ha illustrato i guasti dell'assistenzialismo. Leo Longanesi è stato il più lucido fustigatore della borghesia, e oggi appare una lettura fondamentale: «Il capitale ha perduto forza: è soltanto un peso da difendere: non seleziona, non raffina. Chi possiede un miliardo, possiede novecentonovantanove milioni di più di chi ne possiede uno soltanto: una differenza di zeri, fra gente che vale zero». L'eredità morale dei vecchi borghesi è andata persa: «I figli, i nipoti, i pronipoti di quei vecchi borghesi non chiedono di rimanere borghesi, non vogliono più esserlo, non vogliono più sembrarlo. Essi ripudiano la loro storia: la storia pesa loro, li annoia, li copre di polvere. La storia attira l'agente delle tasse; la storia impone dei doveri; la storia chiede anche di morire. E al borghese d'oggi, la sola cosa che gli sta a cuore è di vivere, di vivere coi quattrini, anche a costo di perderli a poco a poco, ma lentamente, dolcemente». La cultura è un lusso che la borghesia non desidera più: «Il ricco borghese, che finanzia le edizioni Einaudi, si distrae intanto risolvendo le parole incrociate: è il suo passatempo culturale».
Eppure (e qui entra in scena un altro maestro dimenticato), Sergio Ricossa
ha mostrato in Straborghese che solo la borghesia avrebbe tutto l'interesse a creare una vera cultura liberale. Il problema è che non ne vuole sapere, e infatti, politicamente, non produce nulla di significativo dal 1994.
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