Ha fede in Dio e un credo molto suo: «Credere nella vita sempre e comunque, credere nella vita anche quando ti volta le spalle». Nella sua timida semplicità, Raffaele Minichiello, «l'uomo che sfidò gli Stati Uniti d'America», è il riassunto involontario del Novecento, l'uomo qualunque, antico e modernissimo, che attraversa per caso e vince, nemmeno lui sa come, le tempeste della storia: è sopravvissuto a tutto, ai terremoti e ai cecchini dell'Fbi, alle prostitute kamikaze e alle mine vietcong, alle infezioni di guerra e ai disastri aerei, al carcere, alla povertà, alla disperazione e all'emarginazione, senza mollare un centimetro alla vita bastarda, senza concedersi alibi per arrendersi al destino, senza incolpare altri delle proprie sventure. Fragile e invincibile, umanissimo e disumano. Ralph l'americano di Avellino si è ritrovato dentro, come avesse cento vite, tutti i drammi del secolo, mai però attuali come adesso: l'immigrazione e la guerra, il terrorismo e il cancro, il precariato e la malasanità, la fede e la vendetta. É stato, per non farsi mancare nulla, in prigione con Walter Chiari e il benzinaio della famiglia Berlinguer: «Una volta mandai un mazzo di rose rosse per Bianca con un biglietto senza firma. Ero stato in Vietnam ma con lei arrossivo. Per tutta la vita avevo combattuto i comunisti ma i Berlinguer mi piacevano, erano persone per bene».
Raffaele è il bambino che parte da Melito Irpino, contrada Difesa Grande, per volare a New York, il naso appiccicato al finestrino dell'ultima fila dell'aereo, a casa non hanno acqua, nè corrente, ha un solo vestito addosso e i piedi scalzi, l'America gli promette lacrime e sangue, un sogno forse. É il marine che parte volontario per il Vietnam nemmeno diciottenne, con la firma dei genitori, soldato scelto nella quinta divisione di Pendleton, California, addestrato come in Full Metal Jacket dove, come urla il sergente maggiore Hartman « qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei, italiani o messicani».
Vive nella giungla come un animale, senza lavarsi e senza dormire per giorni, torna con quattro decorazioni «ma per avere la medaglia del Congresso ero pronto a morire». Lui che a scuola, a Seattle, parlava solo il dialetto della sua Irpinia, si vedeva ad Arlington, nel cimitero degli eroi. Prendeva 300 dollari al mese e sognava una Plymouth Road Runner rossa. Ma Raffaele è anche, come Rambo, il film che Stallone ha liberamente ispirato alla sua avventura, il ragazzo che non trova abbracci e bandiere al ritorno, ma odio e risentimento, perchè l'aria è cambiata in America e il Vietnam, per chi canta Joan Baez e ama Tom Hayden, non è più guerra di liberazione ma una macelleria abitata da assassini. Così basta un'ingiustizia subita in caserma per accendere la miccia, Ralph inventa, senza capire forse, una nuova figura di terrorista: il pirata dell'aria, difficile gli tolgano ormai il primato del più lungo dirottamento nella storia dell'aviazione civile. Il 28 ottobre 1969 sale a bordo di un Boeing 707 della Twa diretto a San Francisco, trentanove passeggeri a bordo, con un mitra a canna corta e 250 pallottole nascoste nella borsa. Punta il fucile sul viso di Charlene Del Monico, la hostess, e si fa accompagnare dal comandante: «Adesso si va a New York. Sennò sparo». Cinque voli con due diversi equipaggi: da Los Angeles a Denver, da Denver a New York, da New York a Bangor, nel Maine; poi la traversata dell'Atlantico come un Lindbergh cattivo fino a Shannon, in Irlanda e poi a Roma, 10.941 chilometri con le teste di cuoio alle calcagna e gli occhi del mondo addosso. É il criminale internazionele più ricercato del mondo e a New York cercano di farlo fuori: Ralph spara un colpo solo che rimbalza per sbaglio su una bombola d'ossigeno, i corpi speciali si ritirano: «Se fosse esplosa la bombola bruciavamo vivi tutti». In realtà lui non vuole far del male a nessuno. Vuole tornare in Italia e basta. «Cosa farai una volta a Roma?» gli chiede l'hostess Tracey Coleman. «Ci morirò...». Si arrende solo alla Madonna, e non sarebbe stata la prima volta, il giorno in cui fa vent'anni, dopo essere fuggito a piedi per le campagne romane come Igor il russo per tre giorni, senza dormire, nè mangiare, lo riconosce il prete del Santuario dell'Immacolata dove si rifugia. Agli agenti che gli stringono le manette ai polsi dice: «N'aggio fatto niente, paisà». Il suo avvocato è Vassalli, il giudice Squillante: fa 18 mesi di carcere, la buona condotta gli sconta il resto della pena. Carlo Ponti, quando pensa di realizzare un film su di lui, vuole Steve McQueen per interpretarlo, Mel Gibson, anni dopo gli proporrà di riprendere in mano quel progetto.
Immigrato, soldato, terrorista, carcerato. Poi la vita, quella normale, quella di tutti, un lavoro, una moglie, un figlio. Ma per Ralph la guerra non finisce mai. La sua Cinzia muore di parto in ospedale, abbandonata per più di cinque ore in sala travaglio. La uccide un'embolia amniotica, suo figlio avrebbe dovuto chiamarsi Mario. Ralph si fa vincere dal dolore: «Ero pazzo di rabbia e di odio verso i medici: li volevo tutti morti». Compra una pistola mitragliatrice israeliana, prepara le bombe da piazzare durante un convegno medico all'Hotel Ergife di Fiuggi. Il piano è quasi pronto. Ma si ritrova Paolo sulla via di Damasco. Tony, un ragazzo che lavora con lui, conosce il dolore di chi ha perso l'amore della vita, non la vendetta che sta per scatenarsi, gli regala il Nuovo Testamento dei Gedeoni «e così il Signore si prese la mia vita. Lessi: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno. Se Gesù aveva perdonato i suoi carnefici, io dovevo perdonare i miei».
Ha fatto tanti mestieri: ha aperto un ristorante, «Hijaking», «Il dirottatore», con i soldi delle esclusive vendute ai giornali di tutto il mondo, è stato barista, guardia del corpo, gelataio, autista, portinaio, ha venduto Smart e addestrato soldati per l'Afghanistan. Moderno anche in questo. Ha perso anche la seconda, adorata moglie, uccisa da un cancro. Aveva chiamato la figlia Cinzia, come la prima moglie.
Oggi un libro, «Il Marine» (scritto da Pier Luigi Vercesi per Mondadori) racconta la sua storia, che pare una fiction a puntate più che un film. Tifa per Trump («sarà il migliore presidente della storia degli Stati Uniti»), va a messa quasi ogni giorno e predica il Vangelo, ha ancora un mitra a casa ma è una bottiglia di whisky che gli ha regalato un amico.
Si sente italiano e si sente americano. «Il mio libro è il mio modo di dare coraggio alle persone in questi tempi difficili e complicati. Vale sempre la pena di combattere per la vita, cadere per poi rialzarsi». Pensare che da piccolo voleva fare il pilota.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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