Un rito che non tramonta mai

Trovarsi davanti al «macchinetta». E dirsi addio. Lui - in leggero sovrappeso - punta il tramezzino carciofi e gamberetti; lei - in dieta perenne ma comunque un po’ larga di fianchi - digita il numero «45» dell’acqua minerale, naturale. I loro sguardi si evitano, così come le parole. Se la bocca si apre è solo per dire solenni banalità («Oggi fa caldo...»; «Oggi fa freddo...»; «Oggi non si sa se fa freddo o fa caldo...»). Perché di fronte alla «macchinetta», due estranei si sentono in imbarazzo come quando si trovano insieme in ascensore fissando la targhetta «Massimo 4 persone, kg 240». Ben diverso se invece alla «macchinetta» si va in compagnia: allora sì che ci si diverte a sparlare del prossimo. E tra un pettegolezzo e l’altro, giù monete. Un business da tre miliardi di euro all’anno, alla faccia degli spiccioli. Un tesoro speso solo in «espresso», «mokaccino» e «bevanda al cioccolato»? Macché, questa è roba per «Camera Caffè». La «macchinetta» ormai abbraccia un panorama ben più ampio, e c’è chi giura abbia assunto dignità di concetto filosofico. Alla «macchinetta», infatti, si può comprare di tutto. Compreso l’introvabile. Nel menù dei distributori figurano prodotti unici come i «bastoncini di mela essiccati», le «Streghette da agricoltura biologica», il «wafer con l’energia del ginseng», le «chiacchiere salate». E poi, nei casi più disperati, «lasagne alla bolognese», «tortellini alla panna», «ravioli di verdure» e via killerando il fegato. Primi (caldi e freddi) la cui consumazione rimanda a specifiche scelte esistenziali. Insomma, dimmi cosa scegli alla «macchinetta» e ti dirò chi sei: yogurt al cocco, tipico del salutista depresso; due mini sandwiches al prosciutto cotto, un classico di chi è stato mollato dal partner; la barretta di cioccolato al riso soffiato, consolatoria per le vittime del cazziatone del capo; la schiacciatina (gusto oliva), l’ideale di chi marina la palestra da almeno sei mesi; la focaccina ligure, un cult per gli amanti della vita spericolata. Mercato di nicchia? Beh, mica tanto: in Italia c’è una «macchinetta» ogni 26 abitanti. Un’invasione che ha superato gli ampi confini del «fancazzismo» da ufficio, conquistando ospedali, scuole, stazioni ferroviarie, aeroporti, metropolitane, palestre, musei ecc. Il nostro Paese non è solo «drogato» di pausa-caffè sotto il profilo del numero dei fruitori delle «macchinette», ma si piazza pure tra i primi produttori mondiali di distributori automatici. A scattare la fotografia socio-economica del fenomeno c’è ora anche un libro, «Pausa Caffè», scritto da Antonio Barbangelo, edito da Egea. Queste colonnine metalliche che sputano «alimenti di conforto» (o sconforto?) sono diventate così i nuovi totem di un rito sempre più pervasivo negli usi e nei consumi degli italiani. Lontanissimo il 1946, anno cui risale l’installazione dei primi apparecchi destinata alla Coca-Cola, la bibita americana che i marines sbarcati in Italia avevano fatto conoscere nel Bel Paese.
Anche tecnologicamente le «macchinette» sono progredite tantissimo. Ma qualche inconveniente rimane tragicamente attuale.

Come, ad esempio, la bottiglietta d’acqua che uscendo dal suo scomparto si incastra nell’angolo del distributore oppure la «truffa» degli euro inghiottiti dalla macchina maledetta senza che dalla sua «bocca» fuoriesca nessuna contropartita gastronomica. Imprevisti dinanzi ai quali le reazioni sono rimaste le stesse del 1946: calci al distributore e parolacce a tutta forza. Quando si dice il progresso...

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