La strategia del terrore mira a realizzare un progetto politico perfido ma intelligente. Da una parte si lavora per mantenere la presenza «terroristica» sulla piazza mondiale procedendo per una ben studiata escalation da non lasciare respiro ai cittadini. L'obbiettivo è quello di far vivere nel terrore l'Occidente e trascinare nel caos apparati di sicurezza e opinione pubblica.
I terroristi di Al Qaida promettono e mantengono: è questo quanto alcuni non hanno capito o non vogliono capire. Il loro disegno è quello di mandare precisi messaggi che dimostrino determinazione e capacità di azione a chi è ancora perplesso o anche a coloro che non condividono le loro idee. Oramai non si tratta più di una guida nascosta come quella di Bin Laden e nemmeno di un pensiero avverso e contorto come quello del suo vice, il medico egiziano Ayman al Zawahiri. La situazione è sfuggita di mano a chi guida e anche a quanti sono impegnati sia in una situazione di guerra sia in stato di difesa.
Queste organizzazioni non sono più legate ai vertici di Al Qaida e non ricevono più ordini provenienti da lontano: sono già qui, in Occidente, e agiscono con grande capacità tra noi, lavorano in clandestinità, godono di supporti e si muovono con la connivenza di complici. Sono cellule dormienti insediatesi da anni e agiscono da sole con lo scopo di destabilizzare il sistema occidentale e causare danni, soprattutto all'economia. Loro non hanno l'obbiettivo di fare guerra di conquista, sapendo di perderla, ma mirano al ricatto.
Lo spostamento del conflitto dall'Afghanistan e dall'Irak in Europa, più vulnerabile e più facile da raggiungere rispetto alla lontana e blindata America, dimostra che è in atto una nuova fase del piano strategico che da una parte mirerebbe a costringere i governi europei a prendere le distanze dalla «guerra al terrorismo» che il presidente Bush sta conducendo, dall'altra a minare i rapporti dell'Occidente con gli Stati arabi più moderati, in maniera da avere agevolata la scalata al potere del fondamentalismo. Se infatti un califfato islamico è irrealizzabile in Europa, non è difficile in Egitto, Marocco, Giordania, Algeria o anche in Irak e per instaurarlo è necessario un tacito consenso occidentale che potrebbe offrire una sorta di copertura in cambio della tregua.
Questo «progetto» nasce da una precedente esperienza di consensi dovuti a debolezze o strategie di alcuni governi europei che nel passato scesero a compromessi con organizzazioni di matrice integralista per evitare conflitti e scontri. Basta ricordare il regime dei talebani in Afghanistan, quello iraniano dei mullah e altri in Asia e nel mondo arabo, nonché la concessione tanto facile dell'asilo politico a chi ne facesse richiesta, soprattutto in Gran Bretagna.
È giusto rimproverare i musulmani che non sono in grado di prendere una posizione ben chiara e coraggiosa nel combattere e denunciare i terroristi ma è anche giusto che l'Occidente si metta a fare il «mea culpa» per avere permesso a queste persone di rifugiarsi nei paradisi della democrazia senza severi controlli e di avere tollerato, nel nome della libertà, che alcuni potessero diffondere le loro teorie terroristiche di intolleranza nei confronti dei Paesi dove loro stessi vivono e di istigare all'odio e alla violenza.
Abbiamo un gran bisogno di confrontarci e di chiedere a tanti da che parte stanno e di capire dove si sbaglia se non addirittura cosa ne pensano alcuni musulmani per quanto riguarda il fanatismo religioso e come concepiscono la loro stessa fede.
Vivere nel passato vedendo nell'Occidente il nemico crociato e legittimare la guerra contro il suo sistema prendendo come scusanti la questione palestinese o quella afgana, irachena o cecena che sia, è solo un'apparente e cieca motivazione che serve ad ammaliare certi deboli e ingannare persone non in grado di scindere il bene dal male.
*scrittore iracheno
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