«Si vede solo lui: al centro della scena. Riempie tutto lo spazio dell'ampia poltrona dentro alla quale, più che seduto, sembra sprofondato, e dalla quale nonostante ciò troneggia maestoso. E come se non bastasse, perché nessuno possa sbagliarsi sul suo conto e tutti siano in grado di identificarlo immediatamente, gli è stato messo nella mano destra un bicchiere di whisky da cui sorseggia continuamente e tra le labbra un enorme sigaro dal quale tira senza sosta».
Eccolo, Winston Churchill, sul palcoscenico della sua vita, messo in scena da Philippe Forest in Io resto re dei miei dolori (Fandango, pagg. 274, euro 20). Sì, è singolare che dell'eroe inglese che più inglese non si può si occupi uno scrittore francese, ma il sessantunenne Forest (che ha alle spalle un Prix Femina du Premier Roman e un Goncourt de la biographie) ha vissuto e insegnato a lungo al di là della Manica. E un giorno, vedendo la serie tv The Crown, si è imbattuto in una scena che gli ha ricordato una storia che aveva già nell'orecchio, ma che aveva dimenticato: «Nel 1954, Winston Churchill è sul punto di festeggiare il suo ottantesimo compleanno (...) La Camera dei comuni e quella dei lord hanno espresso la volontà di celebrare il grand'uomo tramite un omaggio che gli sarà tributato a Westminster e per il quale gli verrà fatto dono di un maestoso ritratto. L'incarico di realizzarlo è stato affidato al pittore Graham Sutherland. Il quale ha appena compiuto cinquant'anni. E viene presentato sempre più spesso come uno dei più prestigiosi artisti del regno».
Nella serie si immagina anche qualcosa di più: una possibile vicinanza fra i due uomini, il Primo ministro e il pittore, dovuta al fatto che entrambi avessero perso un figlio piccolo. Nel caso di Churchill, la figlioletta Marigold. Un episodio ancora meno noto e pubblicizzato della vicenda del quadro, nella vita solitamente «da palcoscenico» dello statista inglese, e rievocato nel 2016 dal telefilm Churchill's Secret: in una scena è colpito da un ictus (succede davvero, nel 1953, e viene tenuto nascosto) e farfuglia le parole di una ninna nanna, la stessa che la moglie cantava alla piccola Marigold sul letto di morte. Sul palcoscenico ci sono i dolori della Storia, ma anche quelli della storia. Ciascuno può sentire quali spezzino di più il cuore.
Quello di Forest è un romanzo che, per raccontare del ritratto e di ciò che può essere successo prima, durante e dopo la sua realizzazione, pone i due protagonisti - Churchill e Sutherland - su un palco; lo scrittore si mette, di volta in volta, nei panni del regista, degli attori, degli spettatori, dei critici teatrali, dello sceneggiatore... Dato che si parla di teatro e di Inghilterra, come filo conduttore e nume tutelare non poteva che affidarsi al Bardo: ciascuna delle parti della pièce (il prologo, i cinque atti, gli intermezzi e l'epilogo) si svolge all'insegna di una citazione shakesperiana, e a far girare l'intera macchina narrativa è la celeberrima «Tutto il mondo è un palcoscenico» (Come vi piace). Se uomini e donne sono attori, potrebbero anche non avere nomi, dice Forest. E la loro storia potrebbe anche non essere la loro storia bensì, a ben vedere, quella di tutti. E di nessuno, perché, sul quel palcoscenico, la fine è una sola: si scompare dalla scena. Poi ad alcuni, come Churchill, capita di finire nella leggenda. E «un giorno, come è accaduto per Achille, Re Artù o persino per Napoleone, si dirà che non è mai esistito. Si mescolerà alle ombre», e chi potrà dire se davvero Churchill e Sutherland abbiano parlato di quadri (come noto, Winston amava dipingere, e ha realizzato numerose riproduzioni dello stagno nella sua tenuta di Chartwell), o dei figli scomparsi, o dei loro rimorsi in guerra, o di come, nonostante la retorica e le vittorie, le sconfitte e i morti restino sempre tali, e non tornino mai più in vita?
Un giorno, scrive Forest, Churchill siederà accanto ai Macbeth e ai Lear, quelli «di cui antiche cronache ci assicurano che hanno come lui fatto parte della Storia ma che però, come lui, non esistono se non alla maniera di quegli eroi inventati che hanno per nome Bottom, Shylock o Falstaff e ai quali nessuno crede veramente». In questa trasposizione teatrale, oltretutto, i ruoli sono invertiti e il protagonista è più Falstaff, un gigante della politica e della Storia che «gigioneggia» con il suo accento da upper class e occupa l'intero spazio con il suo ego, e la spalla è più Amleto, un pittore preoccupato di essere caduto in una trappola.
Il vecchio Churchill sa bene che quel ritratto è un regalo avvelenato: l'ultimo omaggio (prima dei funerali, va bene...) che la Nazione intenda tributargli, auspicando nel frattempo un rapido e definitivo addio da Downing Street. E Sutherland teme che questo possa nuocere alla sua opera e alla sua carriera. Non che abbia torto. Come finisca la storia (vera) è noto, anche se non del tutto: quando il ritratto fu svelato in pompa magna a Westminster, Churchill ne fu disgustato. Usò il suo sarcasmo per demolire l'avversario ma, dentro di sé, odiava quel quadro, lo fece portare in cantina a Chartwell e fece promettere alla moglie che, dopo la sua morte, l'avrebbe distrutto. Pare che sia stato fatto a pezzi e bruciato in giardino (anche qualcuno crede che esista ancora, da qualche parte).
La furia di Churchill, però, non sfavorì Sutherland: nonostante l'opinione pubblica fosse in gran parte indignata per l'«infame» ritratto del salvatore della patria (e dell'Europa) dai nazisti, il pittore ne acquisì ancora più fama e richieste da parte di persone benestanti di farsi immortalare.
Quanto alla reazione di Churchill, la spiegazione potrebbe essere meramente estetica (quell'«arte moderna», cioè astratta che tanto disprezzava) o vanitosa (il doppio mento, e qualche altro dettaglio che lo avrebbero reso adatto a un «museo degli orrori»), ma il sospetto è che ci fosse altro, ed è la moglie l'unica ad avere il coraggio di confessarlo: «Vedendolo, è su di te che ho pianto. Su di me. Su di noi. Su tutto quello che il tempo e la vita ci hanno inflitto. Perché non possiamo farci nulla».
Perdiamo tutto, ci dissolviamo, noi che siamo fatti della stessa sostanza di cui sono
fatti i sogni, e torniamo fantasmi tra i fantasmi. Resta soltanto, prima che cali il sipario, una eco fuoricampo. «Potete togliermi la gloria e la potenza, dice la voce, ma non i miei dolori di cui resterò per sempre il re».
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