Una rivolta più politica che religiosa

Una rivolta più politica che religiosa

La religione, d’accordo. Il potere di mobilitazione degli imam integralisti, senza dubbio. Eppure questi due fattori non sembrano sufficienti a spiegare per quale ragione la protesta contro le caricature di Maometto sia stata particolarmente violenta in alcuni Paesi islamici, mentre sia stata tutto sommato contenuta in altri. Perché in Siria sì e in Giordania no? Perché proprio in Libano e non in Tunisia? Perché in Pakistan e non in Malesia? Perché ancora in Afghanistan, come già era accaduto l’anno scorso in occasione della protesta - anche allora a scoppio ritardato - per un articolo su Newsweek in cui si ipotizzava la profanazione del Corano nel carcere di Guantanamo?
Può darsi che ci sia un «grande vecchio» in grado di mobilitare le masse su scala planetaria. Ed è indubbio, come ha spiegato Fausto Biloslavo sul Giornale di sabato, che un imam palestinese che vive a Copenaghen, Ahmed Abdel Rahman Abu Laban, abbia svolto un ruolo decisivo nel diffondere nel mondo islamico l’indignazione per le vignette. Ma non è verosimile che lui o altri oscuri propagandisti abbiano la facoltà di istigare la folla con tanta precisione.
E infatti, analizzando la cadenza e la ripartizione degli scontri, appare evidente che più di un regime abbia approfittato dell’emozione suscitata da questa vicenda per strumentalizzarla a fini non religiosi, ma squisitamente politici.
La Siria, innanzitutto. Il governo degli Stati Uniti l’altro giorno ha espresso grande perplessità sugli incidenti di Damasco, sfociati nell’incendio della ambasciate di Danimarca e Norvegia. Quella degli Assad è una dittatura, che ha sempre represso con durezza qualunque protesta di piazza non autorizzata. È evidente che i manifestanti sapevano di poter contare perlomeno sulla compiacenza del governo siriano. E allora bisogna chiedersi perché Assad abbia deciso di giocare questa carta. La risposta va trovata nel contesto internazionale. La Siria è alleata dell’Iran. Fino a un anno fa il regime era sottoposto a una pressione formidabile da parte degli Usa e Assad sembrava avere le spalle al muro: o cambiava rotta o la Casa Bianca avrebbe fatto di tutto per rovesciarlo. Ma negli ultimi mesi la situazione nella regione è cambiata. Le difficoltà a Bagdad e la vittoria di Hamas nei Territori, hanno indotto Washington ad assumere una linea più prudente e oggi tutti gli analisti sono concordi nel ritenere che nel prossimo futuro il Pentagono non può permettersi un’altra guerra, perlomeno non prima della definitiva pacificazione dell’Irak.
Il primo a capirlo è stato l’Iran. Il suo atteggiamento apparentemente erratico e prepotente - un giorno apre al dialogo sul nucleare, l’altro chiude le porte agli ispettori - rientra in realtà in una strategia precisa, incentrata sulla consapevolezza che un attacco militare Usa è improbabile. Il loro modello è la Corea del Nord, potenza nucleare che nel 2003 tenne in scacco la comunità internazionale e, alternando minacce e promesse, si rifiutò di disarmare.
Lasciando scatenare le folle, il governo di Damasco lancia un messaggio analogo a quello iraniano. Dimostra di non temere più l’uso della forza da parte degli Usa e al contempo li avverte che, se cade Assad, il potere potrebbe essere preso proprio dai fondamentalisti. L’Occidente è pronto a correre questo rischio? Una logica simile vale per il Libano, dove domenica è stata assaltata la rappresentanza danese. Ricordate? L’anno scorso la Rivoluzione dei Cedri trionfava e la Siria era costretta a ritirare le truppe. Oggi Damasco attesta che è ancora in grado di destabilizzare Beirut. Anche in questo caso il messaggio è implicito: Usa ed Europa facciano attenzione, il Libano potrebbe sprofondare di nuovo nella guerra civile.
Diverse sono le motivazioni del governo del Pakistan, che è amico di Washington. In questo caso Islamabad punta ad alzare il prezzo della propria fedeltà politica e a ricordare quanto sia importante il ruolo di Musharraf. Anche qui bisogna considerare che dopo gli attentati di Londra, il Pakistan è stato costretto dalle pressioni di Europa e Usa a stringere il controllo sulle madrasse, le scuole islamiche dei fondamentalisti. Musharraf aveva bisogno di un pretesto per allentare la pressione e allontanare il rischio di una vera democratizzazione del proprio Paese. Come dire: accontentavi di me, è nel vostro interesse.
In Afghanistan, dove ieri sono morti i primi manifestanti islamici, le logiche sono quelle dei clan, tra cui anche i talebani e i gruppi legati all’Iran. In questo caso lo scopo è di indebolire il presidente Karzai, per renderlo ancor più dipendente dai capitribù.

E il fatto che a sfilare per le strade di Kabul e di Mihtarlam, una città nel centro dell'Afghanistan, siano state poche poche centinaia di persone, dimostra la natura strumentale della protesta.
C’è il tornaconto, più che Maometto, dietro gli scontri degli ultimi giorni.
marcello.foa@ilgiornale.it

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