ROBERT WALSER Passeggiate svizzere

Dall’Emmental al Giura, un peregrinare tra picchi comici e impennate di grande lirismo

«Non siamo parenti - dice Martin di Robert -, neanche connazionali. Ma lui è il mio padre nobile e nume tutelare, modello di prosa e soprattutto maestro di ironia. Ho letto dieci volte il suo Jakob von Gunten, divertendomi l’ultima volta come la prima. E, ogni volta, riconoscendolo con una sorpresa». Ma non occorre chiamarsi Walser per stupirsi e divertirsi leggendo l’autore di Jakob von Gunten. E Walser - Martin - ha recentemente espresso di Walser - Robert -, un riconoscimento che va molto al di là dell’omonimia del cognome e dell’omofonia della lingua tedesca.
Il tedesco di Germania anzi, sottolineando la propria estraneità familiare e nazionale dallo svizzero tedesco, gli assegna una posizione di primo piano nell’ambito del germanesimo letterario: una statura di autore esemplare e magistrale per tutti, la caratura di un grande scrittore europeo. Vero, ma niente affatto scontato per un tipo come Robert Walser (1878-1956) che, in ogni senso, sfugge. Ritirato a vita semplice e appartata nelle sue alpi (svizzere), sfuggì negli anni fertili a milieu letterari e mondanità. Ricoverato nella clinica psichiatrica di Herisau dal ’33, trascorse il lungo ventennio della vecchiaia recluso nel cantone (svizzero) di Appenzello, escluso da ogni relazione sociale, chiuso - eccettuate poche lettere - in un caparbio silenzio autoriale. Ammutolito per un ventennio anche dopo la morte, sparì del tutto di scena fino agli anni Settanta in cui la riscoperta del francofortese Suhrkamp (lo stesso editore che in Germania pubblica i romanzi di Martin Walser) lo estrasse dal confino (svizzero) e lo mise sui circuiti internazionali.
In tutti i casi, per raggiungerlo e stanarlo, era in Svizzera che bisognava cercare. E anche lassù, avvolto nel «boa di pelliccia di neve dell’Europa» - come egli stesso definì la «patria piccola e audace» -, e stretto con lei «nell’abbraccio delle nazioni», non era detto di riuscire ad acchiapparlo. Non sapeva star fermo. Una Passeggiata gli valse la fama postuma: incisa a perpetua memoria nel titolo di uno dei suoi racconti più noti e esilaranti. Una passeggiata gli costò la vita: azzardata in solitaria nel pomeriggio di Natale in cui, colpito al cuore, morì sui prati innevati nei dintorni del ricovero. Prima di inciampare sulla neve, però, da «bighellone perditempo che se ne va sempre in giro a passeggio» quale si definiva, la sua Svizzera se l’era girata tutta. Dalla natale cittadina di Bienne alla meta fatale di Herisau.
Non furono passi perduti: lasciarono sempre fitte tracce sulla pagina. Che Mattia Mantovani ha ripercorso curando l’antologia walseriana Una specie di uomini molto istruiti. Testi sulla Svizzera (Armando Dadò editore, pagg. 272) per ritrovare dell’autore tutta la vivacità artistica e umana. Sono scritti sparsi, brevi, occasionali: disseminati strada facendo lungo un arco che va dal primo Novecento agli anni Trenta. Proprio dalla loro eterogeneità, dal loro andamento altalenante - tra le cime del Giura e le valli dell’Emmental, tra picchi di comicità e impennate liriche - viene fuori di Robert Walser il più somigliante ritratto dal vero. Il suo iter zigzagante dalle montagne bernesi delle origini (dove, da vero randagio, era tornato in età adulta per abitare otto anni nella mansarda dell’hotel Blaues Kreuz), alla Nidau della scuola, all’amata Basilea, la detestata Zurigo, la Soletta degli anni da impiegato bancario.
La sua indole stravagante, la smania di mettersi per via: dopo cena «ancora una scappata su al monte», «ancora una puntata giù al lago», solo per star fuori e guardare. E quella volta che, invitato a una serata zurighese per dar pubblica lettura dei suoi racconti, aveva raggiunto a piedi la città in tre giorni di cammino e, stropicciato, impolverato, impresentabile, fu invitato ad accomodarsi tra il pubblico e sollecitamente sostituito da un attore. Walser, schivo, scostante, sfuggente, non chiedeva di meglio. Era comunque sempre stata la sua mossa: nascondersi, ritrarsi, mascherarsi nei suoi personaggi, i suoi autori, i suoi alter ego, salvo lasciare un’intercapedine, uno scarto per l’ironia. E farsi riconoscere con una sbirciata, un’occhiata ammiccante lanciata da dietro la maschera.
Appare così nei suoi quadretti svizzeri. Come figura romanzesca: «E poi spense la luce e si mise a letto», scrive di sé come scrivesse il romanzo buffo della propria vita. Teatrale: balzata in una scenetta accanto a una chellerina, una contadina, una pastorella.

Pittoresca: dipinta sullo sfondo di paesaggi da cartolina come Il viandante sul mare di nebbia di Friedrich, ben scelto per la copertina del libro. Ma è lui?! Si dice ritrovandolo, sempre con il gusto della sorpresa. E sempre con la tentazione, Walser o non Walser che ci si chiami, di mettersi sui suoi passi.

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